Lirio Abbate; Paolo Biondani, l’Espresso 1/11/2012, 1 novembre 2012
COSÌ I POLITICI SI SPARTIVANO FINMECCANICA
C’era una volta il manuale Cencelli, che garantiva le regole della spartizione tra partiti. Ma per Finmeccanica, che nella stagione d’oro è arrivata a fatturare 18 miliardi di euro l’anno, i vecchi sistemi non funzionavano. Così è stato inventato "il tabellone": un grande schema con l’organigramma del colosso tecnologico e tante caselle che indicavano le società e gli incarichi nei consigli d’amministrazione. Dodici poltrone in quelle direttamente controllate, molte di più nelle altre aziende partecipate.
Ogni anno, al momento delle nomine, il responsabile delle relazioni istituzionali Lorenzo Borgogni andava nell’ufficio del numero uno di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, prendeva "il tabellone" e cominciava a girare le stanze dei potenti di turno. Il rituale era identico: entrava e apriva sulla scrivania la mappa, discutendo dei nomi da inserire. In effetti più che una discussione, come ricostruisce ai pm lo stesso Borgogni, era una ricezione di "ordini dalla politica". In questa lottizzazione si sono alternati ministri di sinistra e di destra, leghisti e centristi. Borgogni ne parla in due interrogatori del 13 e 20 dicembre 2011 davanti al sostituto procuratore Paolo Ielo della procura di Roma. In precedenza ha descritto questa spartizione in altri verbali con i pm di Napoli - che indagano sugli affari internazionali di Finmeccanica - spiegando che solo "formalmente" i componenti del cda della holding di piazza Montegrappa provengono dal ministero del Tesoro: in realtà «sono il prodotto di una mediazione politica all’interno delle componenti della maggioranza di governo».
Borgogni con i magistrati di Napoli parla soprattutto della Lega, citando Dario Galli (presidente della provincia di Varese e membro del cda) e Giancarlo Giorgetti, «referente per la Lega in materia di nomine». Un quadro che integra le dichiarazioni del superconsulente di Finmeccanica Lorenzo Cola: «Sul piano sostanziale la nomina era il frutto di una precisa ripartizione politica. Tra il 2001 e il 2002, vi era un cosiddetto tavolo delle nomine composto da Brancher, Cesa, Gasparri o La Russa e un uomo della Lega».
Cola, in precedenza, aveva spiegato ai pm che si trattava di nomine politiche. Oltre a Galli e a Giorgetti sono emersi i nomi di Piergiorgio Alberti, espressione dell’ex ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola; Nicola Squillace, referente dell’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa. Non solo. L’ex responsabile delle relazioni istituzionali ha fatto ai pm pure i nomi di Gianni Letta e Carlo Giovanardi: l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio di ministri avrebbe indicato i nomi da inserire ai vertici di alcune controllate di Finmeccanica per conto dello stesso Giovanardi. I magistrati di Roma, insomma, hanno ricostruito un quadro enorme di politici coinvolti nella lottizzazione del colosso statale Finmeccanica.
Le nuove deposizioni di Borgogni svelano come, negli anni successivi, le indicazioni in particolare «provenivano da Paternò e dalla Liguria». Due sillogismi geografici per indicare gli ex ministri La Russa, originario della cittadina siciliana, e Scajola, leader politico di Imperia. La Russa, stando alla deposizione, faceva pressioni per favorire Luigi Ragno, avvocato, in passato esponente di An ed ex candidato a sindaco di Messina: è stato presidente di Alenia Aeronavali, società di Finmeccanica che trasforma aerei da trasporto. Invece l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini, indicava l’avvocato Cesare San Mauro, che è stato suo consigliere per le questioni economiche. Ma dal 2008 in poi il "referente" di Borgogni è diventato Marco Milanese, all’epoca braccio destro di Giulio Tremonti, e «la qualità delle persone indicate dalla politica per i consigli di amministrazione si è abbassata notevolmente rispetto a prima, quando il referente era il sottosegretario Micheli», con il governo Prodi. «Con Milanese arrivavano persone di basso spessore professionale». I contrasti però non riguardavano il curriculum, ma i rapporti di forza: Borgogni rivela che La Russa cercava di evitare Milanese, perché «voleva parlare con un suo pari grado», ossia Tremonti, il quale però «si rifiutava di discutere con il collega». Tutti comunque volevano infilarsi nel business: «Un giorno l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli mandò a chiamare me e Guarguaglini. Andammo nel suo ufficio in via Arenula e quando entrammo trovammo accanto a lui un uomo. Castelli lo presentò dicendo che era suo amico e voleva acquistare una delle società controllate da Finmeccanica». Si tratterebbe di un imprenditore bresciano fornitore della Boeing, ma nell’interrogatorio non risulta l’esito della trattativa.
Occupandosi di Finmeccanica in Italia, la procura di Roma ha scoperto anche tangenti su forniture di bus al Comune di Roma da parte di una delle controllate, la Breda-Menarini che ha sede a Bologna. Nelle indagini sull’ex amministratore delegato Roberto Ceraudo, i finanzieri hanno trovato gioielli, denaro e un’agenda zeppa di appunti in due cassette di sicurezza intestate al figlio. Si tratta di 205 mila euro, in banconote con numeri di serie progressivi: forse arrivano direttamente da una banca. Sull’agenda sono in corso accertamenti, che potrebbero svelare nuovi retroscena. L’attenzione degli investigatori si concentra anche su un paio di fatture da un milione di euro emesse da una società di New York.
Non è l’unica sorpresa emersa dall’inchiesta romana. Una strana rivelazione di Borgogni infatti ha innescato una trama che sembrava in grado di screditare due magistrati anti-corruzione tra i più attivi d’Italia. Una manovra a orologeria, che si apre con una falsa accusa inserita nelle deposizioni. La trama comincia a dipanarsi il 13 dicembre 2011, quando Borgogni viene interrogato dal pm Ielo, che è cresciuto nel pool milanese di Mani pulite e ora è nella squadra anti-corruzione di Roma. All’improvviso Borgogni parla di una confidenza che dice di aver ricevuto dal solito Cola: il gruppo Finmeccanica sarebbe riuscito ad «aggiustare un processo a Milano». Quale? Un caso nato dallo scandalo "Oil for food", che aveva coinvolto l’attuale numero uno di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, quando era top manager dell’Agusta. Quell’inchiesta fu condotta dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, oggi capo dei pm anti-corruzione di Milano. Orsi era accusato di false fatturazioni, per aver pagato nel 2003/2004 una presunta tangente privata di 50 mila dollari a Marco Mazarino De Petro, un ciellino amico di Formigoni e presidente dell’azienda regionale Avionord, che comprò un elicottero Agusta. In effetti Orsi risultava assolto in un giudizio che stranamente non aveva avuto risalto nelle cronache. A quel punto, di fronte al sospetto di un processo "aggiustato", Ielo allerta il capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati, che attiva subito una verifica nella più totale segretezza. Smontando totalmente l’accusa.
Robledo, che per "Oil for food" aveva ottenuto la condanna in primo grado di De Petro (salvato in appello dalla prescrizione), ha indagato e fatto perquisire anche Orsi. Con un decreto severissimo, che accusava il manager di aver «personalmente gestito l’anomalo accordo con De Petro»: soldi giustificati da una consulenza «del tutto inesistente», secondo il pm, visto che all’Agusta «non è stata trovata alcuna documentazione». Ma non basta: sempre Robledo ha citato direttamente a giudizio Orsi come imputato a Milano. Ed è il tribunale, su eccezione della difesa, che ha invece trasferito il processo per competenza a Busto Arsizio. Quindi a Milano non è stato aggiustato nulla.
A questo punto Ielo interroga Cola. L’imputato smentisce in toto Borgogni e sostiene di non avere mai detto nulla di simile. Uno dei due sicuramente mente: resta da capire chi e perché. Contro Borgogni pesa la scoperta che la sentenza a favore di Orsi è dell’ottobre 2011, quando Cola è già agli arresti. Resta Borgogni, che però non ha motivi di rancore verso Robledo, che nel verbale non viene neppure nominato. Mentre Cola, sospettato di legami con settori deviati dei servizi segreti, un motivo per un’ipotetica vendetta ce l’avrebbe. Proprio il pm Robledo aveva infatti scoperto i primi atti da cui emergevano i conti esteri di Cola, il suo ruolo di «grande dispensatore di tangenti» e i presunti rapporti corruttivi con Marina Grossi, l’ex manager della Selex e moglie di Guarguaglini.
Raramente i pm credono ai complotti, ma in questo caso autorevoli magistrati pensano a una manovra raffinatissima per delegittimare due procure. Se Ielo avesse abboccato alla falsa tesi del «processo aggiustato a Milano», sarebbe stato facile additarlo come un pm pronto ad addentare la classica «polpetta avvelenata»; e il suo collega Robledo ne sarebbe stato ingiustamente screditato. Un doppio risultato raggiunto rischiando poco o nulla: Borgogni infatti si limita a citare una presunta confidenza altrui, mentre Cola smentisce, per cui nessuno può vedersi accusare di calunnia.
Ad aggravare i sospetti è anche l’eccezionale epilogo del processo. Orsi ha un avvocato di alto livello, il professor Ennio Amodio, che però non ha dovuto prodigarsi: il manager è stato assolto su richiesta del pm d’udienza, che non era il titolare del fascicolo, ma un giovane «delegato» della sezione staccata di Gallarate. In aula, nessuno ha chiesto di sentire i tre testimoni (due manager del gruppo Finmeccanica e un tesoriere svizzero della Arner) che avevano riscontrato l’accusa dichiarando, messi alle strette proprio dal pm Robledo durante l’istruttoria, che De Petro prese i soldi da Orsi «senza svolgere alcuna attività». E così, il giudice di turno a Gallarate ha potuto assolvere Orsi «perché il fatto non sussiste». Spiegando, in due facciate di motivazione già definitiva dal 20 febbraio 2012 (perché mai impugnata), che De Petro, è vero, si è fatto pagare su un conto offshore una consulenza «non documentata» per un affare a Cuba mai realizzato dall’Agusta, ma «vi è la fattura e vi è l’esborso», come osserva il giudice di Gallarate, «pertanto già da questi due elementi appare arduo sostenere che l’operazione potesse essere inesistente, in quanto fisicamente l’esborso vi è stato e i soldi non sono rientrati all’Agusta spa».
In parole povere, per far dichiarare vera una consulenza dubbia, basta farsi pagare davvero una fattura e tenersi i soldi: quando l’hanno letto nero su bianco, dopo anni di processi e condanne per tangenti mascherate con finte consulenze, i pm milanesi non credevano ai loro occhi. Ma la sentenza su Orsi è indiscutibilmente giusta, tanto è vero che nessuno dei giudici competenti ha neppure provato a metterla in dubbio. C ’ era una volta il manuale Cencelli, che garantiva le regole della spartizione tra partiti. Ma per Finmeccanica, che nella stagione d’oro è arrivata a fatturare 18 miliardi di euro l’anno, i vecchi sistemi non funzionavano. Così è stato inventato "il tabellone": un grande schema con l’organigramma del colosso tecnologico e tante caselle che indicavano le società e gli incarichi nei consigli d’amministrazione. Dodici poltrone in quelle direttamente controllate, molte di più nelle altre aziende partecipate.
Ogni anno, al momento delle nomine, il responsabile delle relazioni istituzionali Lorenzo Borgogni andava nell’ufficio del numero uno di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, prendeva "il tabellone" e cominciava a girare le stanze dei potenti di turno. Il rituale era identico: entrava e apriva sulla scrivania la mappa, discutendo dei nomi da inserire. In effetti più che una discussione, come ricostruisce ai pm lo stesso Borgogni, era una ricezione di "ordini dalla politica". In questa lottizzazione si sono alternati ministri di sinistra e di destra, leghisti e centristi. Borgogni ne parla in due interrogatori del 13 e 20 dicembre 2011 davanti al sostituto procuratore Paolo Ielo della procura di Roma. In precedenza ha descritto questa spartizione in altri verbali con i pm di Napoli - che indagano sugli affari internazionali di Finmeccanica - spiegando che solo "formalmente" i componenti del cda della holding di piazza Montegrappa provengono dal ministero del Tesoro: in realtà «sono il prodotto di una mediazione politica all’interno delle componenti della maggioranza di governo».
Borgogni con i magistrati di Napoli parla soprattutto della Lega, citando Dario Galli (presidente della provincia di Varese e membro del cda) e Giancarlo Giorgetti, «referente per la Lega in materia di nomine». Un quadro che integra le dichiarazioni del superconsulente di Finmeccanica Lorenzo Cola: «Sul piano sostanziale la nomina era il frutto di una precisa ripartizione politica. Tra il 2001 e il 2002, vi era un cosiddetto tavolo delle nomine composto da Brancher, Cesa, Gasparri o La Russa e un uomo della Lega».
Cola, in precedenza, aveva spiegato ai pm che si trattava di nomine politiche. Oltre a Galli e a Giorgetti sono emersi i nomi di Piergiorgio Alberti, espressione dell’ex ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola; Nicola Squillace, referente dell’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa. Non solo. L’ex responsabile delle relazioni istituzionali ha fatto ai pm pure i nomi di Gianni Letta e Carlo Giovanardi: l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio di ministri avrebbe indicato i nomi da inserire ai vertici di alcune controllate di Finmeccanica per conto dello stesso Giovanardi. I magistrati di Roma, insomma, hanno ricostruito un quadro enorme di politici coinvolti nella lottizzazione del colosso statale Finmeccanica.
Le nuove deposizioni di Borgogni svelano come, negli anni successivi, le indicazioni in particolare «provenivano da Paternò e dalla Liguria». Due sillogismi geografici per indicare gli ex ministri La Russa, originario della cittadina siciliana, e Scajola, leader politico di Imperia. La Russa, stando alla deposizione, faceva pressioni per favorire Luigi Ragno, avvocato, in passato esponente di An ed ex candidato a sindaco di Messina: è stato presidente di Alenia Aeronavali, società di Finmeccanica che trasforma aerei da trasporto. Invece l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini, indicava l’avvocato Cesare San Mauro, che è stato suo consigliere per le questioni economiche. Ma dal 2008 in poi il "referente" di Borgogni è diventato Marco Milanese, all’epoca braccio destro di Giulio Tremonti, e «la qualità delle persone indicate dalla politica per i consigli di amministrazione si è abbassata notevolmente rispetto a prima, quando il referente era il sottosegretario Micheli», con il governo Prodi. «Con Milanese arrivavano persone di basso spessore professionale». I contrasti però non riguardavano il curriculum, ma i rapporti di forza: Borgogni rivela che La Russa cercava di evitare Milanese, perché «voleva parlare con un suo pari grado», ossia Tremonti, il quale però «si rifiutava di discutere con il collega». Tutti comunque volevano infilarsi nel business: «Un giorno l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli mandò a chiamare me e Guarguaglini. Andammo nel suo ufficio in via Arenula e quando entrammo trovammo accanto a lui un uomo. Castelli lo presentò dicendo che era suo amico e voleva acquistare una delle società controllate da Finmeccanica». Si tratterebbe di un imprenditore bresciano fornitore della Boeing, ma nell’interrogatorio non risulta l’esito della trattativa.
Occupandosi di Finmeccanica in Italia, la procura di Roma ha scoperto anche tangenti su forniture di bus al Comune di Roma da parte di una delle controllate, la Breda-Menarini che ha sede a Bologna. Nelle indagini sull’ex amministratore delegato Roberto Ceraudo, i finanzieri hanno trovato gioielli, denaro e un’agenda zeppa di appunti in due cassette di sicurezza intestate al figlio. Si tratta di 205 mila euro, in banconote con numeri di serie progressivi: forse arrivano direttamente da una banca. Sull’agenda sono in corso accertamenti, che potrebbero svelare nuovi retroscena. L’attenzione degli investigatori si concentra anche su un paio di fatture da un milione di euro emesse da una società di New York.
Non è l’unica sorpresa emersa dall’inchiesta romana. Una strana rivelazione di Borgogni infatti ha innescato una trama che sembrava in grado di screditare due magistrati anti-corruzione tra i più attivi d’Italia. Una manovra a orologeria, che si apre con una falsa accusa inserita nelle deposizioni. La trama comincia a dipanarsi il 13 dicembre 2011, quando Borgogni viene interrogato dal pm Ielo, che è cresciuto nel pool milanese di Mani pulite e ora è nella squadra anti-corruzione di Roma. All’improvviso Borgogni parla di una confidenza che dice di aver ricevuto dal solito Cola: il gruppo Finmeccanica sarebbe riuscito ad «aggiustare un processo a Milano». Quale? Un caso nato dallo scandalo "Oil for food", che aveva coinvolto l’attuale numero uno di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, quando era top manager dell’Agusta. Quell’inchiesta fu condotta dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, oggi capo dei pm anti-corruzione di Milano. Orsi era accusato di false fatturazioni, per aver pagato nel 2003/2004 una presunta tangente privata di 50 mila dollari a Marco Mazarino De Petro, un ciellino amico di Formigoni e presidente dell’azienda regionale Avionord, che comprò un elicottero Agusta. In effetti Orsi risultava assolto in un giudizio che stranamente non aveva avuto risalto nelle cronache. A quel punto, di fronte al sospetto di un processo "aggiustato", Ielo allerta il capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati, che attiva subito una verifica nella più totale segretezza. Smontando totalmente l’accusa.
Robledo, che per "Oil for food" aveva ottenuto la condanna in primo grado di De Petro (salvato in appello dalla prescrizione), ha indagato e fatto perquisire anche Orsi. Con un decreto severissimo, che accusava il manager di aver «personalmente gestito l’anomalo accordo con De Petro»: soldi giustificati da una consulenza «del tutto inesistente», secondo il pm, visto che all’Agusta «non è stata trovata alcuna documentazione». Ma non basta: sempre Robledo ha citato direttamente a giudizio Orsi come imputato a Milano. Ed è il tribunale, su eccezione della difesa, che ha invece trasferito il processo per competenza a Busto Arsizio. Quindi a Milano non è stato aggiustato nulla.
A questo punto Ielo interroga Cola. L’imputato smentisce in toto Borgogni e sostiene di non avere mai detto nulla di simile. Uno dei due sicuramente mente: resta da capire chi e perché. Contro Borgogni pesa la scoperta che la sentenza a favore di Orsi è dell’ottobre 2011, quando Cola è già agli arresti. Resta Borgogni, che però non ha motivi di rancore verso Robledo, che nel verbale non viene neppure nominato. Mentre Cola, sospettato di legami con settori deviati dei servizi segreti, un motivo per un’ipotetica vendetta ce l’avrebbe. Proprio il pm Robledo aveva infatti scoperto i primi atti da cui emergevano i conti esteri di Cola, il suo ruolo di «grande dispensatore di tangenti» e i presunti rapporti corruttivi con Marina Grossi, l’ex manager della Selex e moglie di Guarguaglini.
Raramente i pm credono ai complotti, ma in questo caso autorevoli magistrati pensano a una manovra raffinatissima per delegittimare due procure. Se Ielo avesse abboccato alla falsa tesi del «processo aggiustato a Milano», sarebbe stato facile additarlo come un pm pronto ad addentare la classica «polpetta avvelenata»; e il suo collega Robledo ne sarebbe stato ingiustamente screditato. Un doppio risultato raggiunto rischiando poco o nulla: Borgogni infatti si limita a citare una presunta confidenza altrui, mentre Cola smentisce, per cui nessuno può vedersi accusare di calunnia.
Ad aggravare i sospetti è anche l’eccezionale epilogo del processo. Orsi ha un avvocato di alto livello, il professor Ennio Amodio, che però non ha dovuto prodigarsi: il manager è stato assolto su richiesta del pm d’udienza, che non era il titolare del fascicolo, ma un giovane «delegato» della sezione staccata di Gallarate. In aula, nessuno ha chiesto di sentire i tre testimoni (due manager del gruppo Finmeccanica e un tesoriere svizzero della Arner) che avevano riscontrato l’accusa dichiarando, messi alle strette proprio dal pm Robledo durante l’istruttoria, che De Petro prese i soldi da Orsi «senza svolgere alcuna attività». E così, il giudice di turno a Gallarate ha potuto assolvere Orsi «perché il fatto non sussiste». Spiegando, in due facciate di motivazione già definitiva dal 20 febbraio 2012 (perché mai impugnata), che De Petro, è vero, si è fatto pagare su un conto offshore una consulenza «non documentata» per un affare a Cuba mai realizzato dall’Agusta, ma «vi è la fattura e vi è l’esborso», come osserva il giudice di Gallarate, «pertanto già da questi due elementi appare arduo sostenere che l’operazione potesse essere inesistente, in quanto fisicamente l’esborso vi è stato e i soldi non sono rientrati all’Agusta spa».
In parole povere, per far dichiarare vera una consulenza dubbia, basta farsi pagare davvero una fattura e tenersi i soldi: quando l’hanno letto nero su bianco, dopo anni di processi e condanne per tangenti mascherate con finte consulenze, i pm milanesi non credevano ai loro occhi. Ma la sentenza su Orsi è indiscutibilmente giusta, tanto è vero che nessuno dei giudici competenti ha neppure provato a metterla in dubbio.