Denise Pardo, l’Espresso 1/11/2012, 1 novembre 2012
KAISER MARIO
[Mario Draghi]
Esattamente un anno fa si è insediato in Germania. Ma è come se fosse salito sulle montagne russe. Su e giù, una volta idolo, una volta diavolo sull’onda e sul moto della crisi economica e della tenuta della moneta unica. Cinque mesi fa "Bild", quotidiano da 12 milioni di lettori, aveva consegnato a Mario Draghi il copricapo Pickelhaube, era circolata la foto, lui che ride come non si era mai visto, l’onore era grande, un italiano con l’elmo di Prussia non solo di Scipio. Kaiser Mario? Non per tutti e non sempre. All’inizio di ottobre "Der Spiegel" dedica la copertina all’euro sul punto di squagliarsi, individuando nel presidente Bce l’essere spericolato che espone risparmi e economia a rischio di una pesante inflazione (uno spettro per il Paese che non dimentica quella del 1923 che portò al sorgere del nazismo). Ma ecco che a fine ottobre è lo stesso giornale a ospitare con grande risalto una sua intervista in cui si dichiara sostenitore della tesi tedesca di un super commissario dell’euro con poteri di veto e di controllo sui bilanci degli Stati membri. Contro il quale si era pronunciato Mario Monti e naturalmente mezza Ue.
Su e giù. A Berlino c’è Wolfgang Schäuble il ministro delle Finanze che va piuttosto pazzo per lui (è sua la proposta del super commissario, con le dichiarazione a "Spiegel" Draghi l’avrà fatto felice). A settembre lo ha premiato con il M100 Award con queste parole, e per capirne il peso si consideri che è un luterano nato a Friburgo non a Posillipo: «L’euro è una moneta stabile, ed è nostro compito salvarlo a tutti i costi e intervenire, come ha fatto lei, caro presidente». Vicino a lui ad applaudire Paul Achleitner presidente di Deutsche Bank. Ma a Francoforte sul Meno si dipana la spettacolare "frizione" (così minimizza l’inner circle draghiano) con il presidente della Bundesbank il rampante Jens Weidmann, 44 anni, ex consigliere di Angela Merkel, maestro nel cavalcare la protesta pop contro l’interventismo economico europeo. In Italia, intanto, il nome di Draghi a fasi alterne, continua a circolare come altro possibile salvatore della patria.
È passato un anno, era il primo novembre 2011, da quando l’ex governatore della Banca d’Italia, uno degli uomini più potenti del mondo, è approdato sulla vetta dell’Eurotower. Un anno tondo, nell’anno più turbolento dell’Unione, vissuto sul filo della secolarizzazione dell’euro, della tutela del sistema europeo, sullo sfondo di un malcontento sociale crescente, facendo scoppiare la bomba del fondo salva-Stati, costasse pure lacrime e sangue germanico. In Italia Draghi è stato sempre apprezzatissimo, tranne qualche ministro dell’Economia contro, qualche velata critica dai giornali, e l’odio-amore del passionale popolo Web. Non ne parliamo all’estero specie nel mondo anglosassone di riferimento (Mit, Harvard, Washington, Goldman Sachs, non ha mancato una tappa) eppure proprio da là arriva qualche stralo e "The Economist" in ottobre si dedica a «the conflict between two men», lui e Weidmann. Forse per la prima volta nella sua formidabile carriera gestita con fredda abilità e sublime sapienza il presidente della Bce prova l’effetto che fa l’essere al centro di un fragore mediatico internazionale se non globale.
Nonostante l’apparenza, Draghi non è un conformista. Per questo l’interpretazione di un istituto come Bce tradizionalmente rigido con la missione della stabilità dei prezzi e del vade-retro inflazione, non dipende solo dall’emergenza ma anche dalla sua stessa natura. Ed è stato così che la sua politica interventista e operativa, vitale per l’euro ma di alta sensibilità politica, ha spaccato la Germania già in assetto di guerra per la prossima battaglia elettorale. Dalla sua parte Draghi ha la Bundeskanzlerin Angela (telefonate, missive, incontri non troppo pubblicizzati per un rapporto già antico) che non gli ha mai fatto mancare il suo appoggio (ma ora la sua posizione è che la Bce faccia quello che deve senza costringerla a passare sotto i fuochi del Parlamento). Soprattutto perché i maggiori oppositori di Draghi si annidano proprio tra i ranghi Cdu/Csu, il partito della Merkel, in prima fila Markus Söder, pimpante ministro delle finanze bavarese, la più grande e più potente fra le 16 regioni federali. Con loro Juergen Stark, pupillo di Helmut Kohl, ex capo economista della Banca centrale ed ex vice presidente Bundesbank, amareggiato al punto da dimettersi dalla Bce, e il potentissimo economista Hans-Werner Sinn, presidente dell’Istituto Ifo di Monaco che ha più volte previsto «un’inflazione-Ketchup conseguenza della politica Bce». Dall’altra parte della barricata c’è la foga del sostegno dei papaveri Spd, il presidente del partito Sigmar Gabriel, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz (il "kapò" di Silvio Berlusconi) fino allo sfidante della Merkel nel 2013, Peer Steinbruck, ex ministro delle Finanze, che ora seguendo i consigli di Helmut Schmidt è in fase di revisionismo pro-Draghi. E, ironia della sorte, fanno il tifo per lui le truppe ecologiste dei Grünen, in prima fila il loro eurodeputato ed ex capo del ’68 francese Daniel Cohn-Bendit. Senza dimenticare Jorg Assmussen, membro tedesco nel comitato esecutivo Bce con il quale si è stabilita una bella sintonia, l’uomo che ha preso le distanze dalle polemiche di Weidmann (consacrato da dieci pagine di "Der Spiegel" come «il governatore che incarna tutte le virtù teutoniche», lui sì). Sarà perché Assmussen, con tanto di master bocconiano, ha un debole per l’Italia?, insinua chi passa il tempo a captare anche un impercettibile cedimento del presidente della banca centrale a favore della patria d’origine. «Beati voi che avete Draghi a Francoforte» è la litania che tocca ai ministri italiani a Bruxelles. Ma questa euro-malizia non fu risparmiata neppure ai francesi al tempo di Jean Claude Trichet.
Se il suo predecessore era considerato un "micromanager" ossessionato dal controllo, uno che stava con il fiato sul collo di tutti, che girava con l’iPod infilato nell’orecchio per imparare il tedesco (cosa che Draghi non ha mai pensato di fare), lui rappresenta l’esatto contrario: fissa le grandi linee strategiche e poi delega. Non ha traslocato a Francoforte, è solo andato a vivere nell’appartamento nel Westend di proprietà della banca centrale (sua moglie Serena non si è stabilita in Germania). Non ha cambiato quasi nulla nell’organizzazione, confermando nel ruolo chiave di capo consigliere Christian Thimann, ex di Trichet e lanciato da Tommaso Padoa-Schioppa. Solo ora ha sostituito Elisabeth Ardaillon-Porier con Christine Graeff a capo della comunicazione a partire dal 2013. E a un anno dall’insediamento, la sua leadership all’interno dell’Eurotower (dove gravano le rivendicazioni sindacali, le polemiche sul lievitare di costi dei lavori della nuova sede e l’accusa di misoginia) sembra molto solida. È molto attento a certi dettagi, mai un’assenza alle piccole cerimonie interne, dai premi agli incontri con i pensionati, riuscendo a trasferire ai suoi il valore del gioco di squadra. Nulla di scontato: in altri tempi con altri presidenti, due dei sei membri del comitato esecutivo non si rivolgevano la parola. Anche la perfida gestione delle divergenze con Weidmann (arrivato a paragonarlo al Mefistofele del Faust di Goethe) che, tabù dei tabù, aveva fatto sapere con una nota di Bundesbank, principale azionista di Bce, di aver votato contro il piano di acquisti illimitati di titoli di Stato, gli ha fatto guadagnare un bel po’ di punti. Era stata una scandalosa violazione perché le posizioni all’interno della banca centrale non erano mai state ufficializzate. Se questo è il nuovo corso, avrebbe commentato lui secondo la vox populi Bce, allora che sia tutto alla luce del sole. Così si è anche saputo, che Weidmann era rimasto isolato. E che alla fine i voti sono voti, non si pesano come vorrebbe il capo di Buba e che conta uno come il governatore della Banca del Lussemburgo.
Intanto Draghi, che il quotidiano "Frankfurter Allgemeine" ha ventilato potesse perfino essere il comandante Schettino della moneta unica, da buon banchiere allevato dai gesuiti («Mai dimenticare la sua formazione», raccomandava un vecchio collega che lo conosceva bene) ha dato il via a un percorso esorcistico. Primo passo, la visita pastorale del 24 ottobre alla Bundestag, la Camera bassa tedesca, a porte chiuse per spiegare all’establishment i vantaggi del fondo salva-Stati. A quanto pare è andato bene, dopo un inizio temperatura freezer. Poi l’intervista a "Der Spiegel" dove esalta le proposte teutoniche, respinge le accuse di alimentare l’inflazione e replica che il timore per il super commissario è infondato: molti Stati membri hanno perso la sovranità da un pezzo. Una franchezza quasi spiazzante, ma anche un tributo (obbligato?) alle istanze tedesche. L’importante è che Draghi si muova con cautela, si sostiene a Francoforte, stando bene attento a rimanere fuori dal conflitto politico. Eppure in una conferenza in Croazia ai primi di ottobre il premio Nobel Paul Krugman dopo aver detto «Draghi mi entusiasma, ma se ascolto i politici tedeschi mi deprimo di nuovo» gli ha attribuito «grande creatività nel trovare soluzioni attraverso il progetto politico».
Per molti osservatori esperti di cose europee, il suo ruolo in Bce ha messo un po’ in ombra quello di Josè Barroso, presidente della Commissione Ue. Sia come sia ma all’ultimo Consiglio europeo, nel mezzo della bagarre sull’unione bancaria (proposta da lui e dalla Commissione di Barroso) e sulla supervisione sugli istituti di credito, Draghi ha avuto una soddisfazione notevole: l’encomio per la sua capacità di mediazione (che ha lasciato tempo e spazio ai leader per trovare un accordo sulla questione) da parte del presidente del consiglio Ue Herman Van Rompuy, un tipo che se ne intende, secondo "Le Figaro" è un «horloger des compromis impossibles», un orologiaio dei compromessi impossibili.
Su e giù, così sono passati i dodici mesi da quel novembre che ha cambiato l’immagine dell’Italia, lui alla Bce, Monti a Palazzo Chigi. Un giorno nell’Olimpo di super eroe della moneta unica e il giorno dopo, almeno in Germania, agli inferi come l’ammutinato numero uno dell’idea fissa dei tedeschi: le formiche non si addossano i debiti delle cicale. Nel Palazzo impazzito di Roma il suo nome continua a essere sulla bocca di tutti. Per esempio, sondaggisti come Alessandra Ghisleri di gran fiducia del Cavaliere che glielo ha fatto testare, segnalano che se candidato Draghi sgominerebbe pure Batman (quello vero non quello spendaccione della Regione Lazio).
I contatti con il capo dello Stato Giorgio Napolitano sono frequenti e ci sono incontri riservati con Monti a Milano, nella tranquillità della casa della figlia di Draghi dove appena può, va a fare il nonno. Si dice: tornerà prima della scadenza del mandato in Bce. È una speranza, è una boutade. Chi è stato qualcuno di importante in Europa, spiega uno che lo è stato, ha provato la vertigine del potere internazionale, un potere vero e molto diverso da quello nostrano dove alla fine nessuno riesce a incidere sul serio. In effetti dall’alto dell’Eurotower, il crepuscolo degli dei italiani deve sembrare molto lontano e certamente molto imbarazzante.