Paolo Di Stefano, Sette 2/11/2012, 2 novembre 2012
L’UFFICIALE VA DI CORSA E NON HA TATUAGGI
Solennità è la prima parola che viene in mente. Poi ne verranno altre. Una solennità che resiste al tempo, e non solo per la maestosa facciata del Palazzo Ducale, che da oltre centocinquant’anni ospita, nel centro di Modena, l’Accademia Militare: il torrione centrale, i due laterali, il colonnato, la balconata, le nicchie, le statue, i mascheroni. Un castello medievale divenuto sede della famiglia d’Este e trasformato in «palagio novo et grande» per volontà del duca Francesco I il quale nel 1629 affidò l’incarico della ricostruzione all’architetto Bartolomeo Avanzini. Poi superi il portone e nell’ingresso ad archi una solennità sacrale si aggiunge alla solennità architettonica: dal soffitto al pavimento, incisi sul marmo, sfilano su decine di colonne i nomi di coloro che «affrontarono impavidi morte gloriosa», gli ex allievi caduti in tutte le guerre e nei tempi di pace.
Per fortuna, in questa cornice imponente che sembra fatta apposta per mettere soggezione agli estranei (e non solo a loro), c’è il generale Giuseppe Nicola Tota, da pochi giorni nominato al vertice dell’Accademia, comandante di brigata dall’aria compunta e insieme cordiale come si confà a un bersagliere doc, che ti accompagna su un ascensore per raggiungere il primo piano e dopo aver attraversato diversi corridoi con i ritratti di Vittorio Emanuele principe di Napoli, Re Carlo II d’Inghilterra, Sua Maestà Carlo Felice re di Sardegna eccetera eccetera, ti invita a sederti nel suo gigantesco ufficio, davanti alla sua gigantesca scrivania, sotto giganteschi tendaggi e altissimi soffitti. Tutto ha proporzioni enormi anche all’interno, ma quando entri nel Salone d’Onore rischi di rimanere senza fiato, schiacciato dal gigantismo scenografico barocco, arredi chiari, tappezzerie, divani e poltrone damascate lungo le pareti, stucchi, candelabri a luci soffuse, decori dorati, fregi, dipinti in chiaroscuro, cornicioni, medaglioni, l’aquila estense che osserva tutto, le balconate che percorrono a mezza altezza le quattro pareti e un lampadario di vetro e ferro battuto largo come una nave che galleggia nel vuoto, legata a un argano che gli permette di salire e di scendere a seconda delle esigenze. «Bradamante incoronata da Giove nell’Olimpo» è il soggetto dell’affresco dipinto da Antonio Franceschini sul soffitto del Salone: pare che la volta sia sagomata da canne intrecciate. Qui nel 1797 venne mostrato per la prima volta al pubblico il tricolore deliberato come vessillo nazionale. Qui il 20 agosto 1859 venne proclamata la decadenza della sovranità estense.
Il Circolo Ufficiali non è distante, atmosfera poco gerarchica, piuttosto allegra, e il caffè non è male. Non si contano i saluti alla visiera mentre circoli a fianco del generale lungo il loggiato che sovrasta il Cortile d’Onore, dove ogni mattina si assiste all’alzabandiera. Sospensione è un’altra parola-chiave. Il tempo, qui, si è come fermato a un secolo e mezzo fa: la gerarchia, il silenzio, l’obbedienza, i riti, la scansione delle giornate. «Lo spirito dell’Accademia non cambia», fa notare, con il suo accento pugliese, il generale, che cominciò qui come allievo nel 1979, «moralità e serietà, disciplina, rispetto delle regole, massima attenzione al decoro esteriore, all’uniforme e alla pulizia delle scarpe, al comportamento, al saluto, ma anche vivacità e goliardia per rendere più leggera la convivenza». Sostanza e forma. Anacronismo?
Tradizione e cambiamento. Se lo chiedete al generale Tota, vi sentirete rispondere che «chi entra qui dentro sa quali sono le regole e alla fine ne esce soddisfatto». Nel decalogo dei bersaglieri c’è la fiducia in se stessi fino alla presunzione. Tradizione e graduale rinnovamento, non troppo e neanche troppo poco. Il giusto. I cambiamenti più visibili sono tre e tutti piuttosto recenti: l’ingresso delle donne nel 2000; il passaggio nel 2005 dalla leva obbligatoria all’esercito professionale; le nuove tecnologie che filtrano (come la crisi economica) anche attraverso i muri spessi del Palazzo Ducale nelle forme più aggiornate: anche qui è finita la corsa al telefono pubblico con i gettoni, anche qui si comunica nei social network… Sconsigliati invece i tatuaggi in zone visibili del corpo, anzi vietati.
«Quest’anno abbiamo una comandante di campo sposata con un sergente maggiore e con una figlia», osserva fiero il generale. Fierezza potrebbe essere un’altra parola-chiave. Senza l’orgoglio qui crollerebbero i muri, non solo gli esseri umani.
Per esempio, l’orgoglio di appartenere alla più antica Accademia Militare non d’Italia, non d’Europa ma del mondo, attiva dal 1º gennaio 1678 con sede a Torino e poi, con l’Unità, trasferitasi a Modena. Bisognerà precisare, a vantaggio dei profani, che se si chiama Accademia è perché impone agli allievi ufficiali (dell’esercito e dei Carabinieri), tra i 17 e i 23 anni, accanto al primo biennio di formazione tecnico-militare, un curriculum universitario obbligatorio (nelle varie facoltà, da medicina a ingegneria), con ritmi che non ammettono debiti formativi. Dunque, un allievo (sia esso «cappellone» cioè del primo anno, o «anziano» cioè del secondo) deve pensare per due, non mollare sul fronte militare e concentrarsi negli studi.
Il colonnello Nicola Terzano, goriziano di 44 anni, è il comandante di reggimento: è lui che – dopo aver partecipato, tra l’altro, a diverse missioni all’estero, Bosnia, Kosovo, Libano – oggi guida e sovrintende agli oltre 400 allievi. Incontrato all’esterno non sembrerebbe certo un pezzo grosso dell’esercito, ride volentieri appena può, ama la battuta e nell’insistere sui valori «ormai difficili da trovare al di fuori», non sottovaluta l’aspetto ludico, che rinsalda lo spirito di corpo e aiuta l’umore. Anzi, sottolinea che il teatrino interno organizzato dagli allievi è «satira di altissimo livello, e Zelig ci fa un baffo».
I cappelloni vanno di corsa. Anche accanto a Terzano è difficile camminare senza sentire quasi a ogni passo il battere dei tacchi di chi si mette sull’attenti per un saluto. Passassero davanti a lui cento volte al giorno, cento volte al giorno saluterebbero con lo sguardo severo rivolto nella sua direzione e la mano alla visiera. Se si potesse, verrebbe quasi da ridere. I cappelloni, che portano la tuta mimetica o meglio «da servizio e combattimento», in attesa che la sartoria distribuisca le divise grigio-verdi, devono correre: non possono camminare, non possono utilizzare lo Scalone d’Onore, non possono frequentare le ali nobili del palazzo. Sono l’ultima ruota del carro e lo sanno. Se non lo sanno abbastanza, subiranno le dovute sanzioni disciplinari e se continueranno a non saperlo si arriverà alla cacciata. Di recente un allievo è stato mandato via dopo aver terminato il primo anno: «Non si è dimostrato all’altezza sul piano caratteriale». A volte, alla poca convinzione del ragazzo cerca di rimediare l’insistenza fiera dei genitori, e alla lunga l’equivoco salta fuori. «Normalmente già dai primi giorni del tirocinio si capisce se sono davvero portati per questa carriera o no», dice il colonnello. Dopo la prima selezione e il tirocinio di un mese, si deciderà sull’accesso a Palazzo Ducale. Dalla porta secondaria e sempre lungo percorsi periferici: figurarsi che il loggiato al primo piano è rigorosamente diviso da una linea ideale che separa la corsia dei giovani, interna e in ombra, da quella degli anziani, che possono godersi la luce sul Cortile d’Onore.
Puro gusto dell’umiliazione? I graduati dicono che è tutto pensato non tanto per far pesare le gerarchie ma per rendere più funzionale l’andirivieni quotidiano dei circa 400 allievi e del centinaio di ufficiali. Fatto sta che il Museo Storico, collocato negli Appartamenti privati, la Galleria della Memoria, le Sale delle Armi, la Galleria dello Stringa, la Sala delle Uniformi, le due Sale Coloniali, la Sala del Caffè, il Tempio della Gloria non appartengono ai circuiti abituali degli allievi. Per non parlare degli Appartamenti di Stato, Camera Verde, Sala del Trono, Salottino d’Oro…
Piuttosto, la loro «cuccia» è la Caserma Montecuccoli, un ex convento secentesco che nel 1868 fu collegato al Palazzo Ducale attraverso un cavalcavia in ferro e vetro che gli allievi chiamarono subito il Ponte dei Sospiri, essendo uno dei pochi passaggi da cui si riesce a vedere la strada, la vita, il mondo esterno che si muove. Lì, nella Montecuccoli, ci sono le camerate: vecchiotte, anzi cadenti e scalcinate, con le crepe del terremoto ben visibili, ma perfettamente in ordine, tutto allineato secondo una «metodologia precisa», scuri serrati, finestre socchiuse, sedie rovesciate sui letti. Per chi non ha registrato mentalmente la mappa dei vari ambienti, il tutto si presenta, illuminato al neon, come un dedalo di corridoi con stemmi ovunque e bacheche che custodiscono coppe e trofei, un labirinto di androni, cortili, vetrate e scale da cui sbucano, salgono e scendono, sempre rigorosamente di corsa, schiere di tute mimetiche per spostarsi da una lezione all’altra: «Sanno che la risorsa principale, non replicabile, è il tempo», osserva il colonnello Terzano.
Sarebbe facilissimo perdersi senza una guida. Così come sarebbe impossibile raggiungere il cortile, adiacente al Parco Comunale, con le quattro torri, la pista di atletica e, sul fondo, la palestra maggiore, dove si svolge «l’attività addestrativa» tra cyclette, tapis roulant, parallele, pertiche, corde, cavalli, flessioni, lanci sul telo da quattro metri: «Comandi, Signore!».
Il telo circolare viene sostenuto da 22 allievi, il maresciallo istruttore dà l’ordine, l’allievo urla il suo nome e si butta. Non basta un semplice «bravo». Il complimento del colonnello è doppio: «Gagliardo, massiccio!». Sull’attenti per un attimo, poi si riprende a correre.
Paolo Di Stefano