il Giornale 1/11/2012, 1 novembre 2012
Berline chic e spider da sogno E Lancia sedusse la borghesia Al tramonto il marchio di Aprilia, Flavia e Aurelia, simboli di quel ceto medio che non amava né la grinta delle Alfa Romeo né lo stile anonimo delle Fiat Tony Damascelli C’è ancora un grattacielo a Torino, in borgo San Paolo, appoggiato come un totem su due lati, sotto i quali si passava a piedi e in automobile, fieri di quella insegna di sei lettere che stava in cima ai quattordici piani: LANCIA
Berline chic e spider da sogno E Lancia sedusse la borghesia Al tramonto il marchio di Aprilia, Flavia e Aurelia, simboli di quel ceto medio che non amava né la grinta delle Alfa Romeo né lo stile anonimo delle Fiat Tony Damascelli C’è ancora un grattacielo a Torino, in borgo San Paolo, appoggiato come un totem su due lati, sotto i quali si passava a piedi e in automobile, fieri di quella insegna di sei lettere che stava in cima ai quattordici piani: LANCIA. L’insegna è sparita,come è sparita la palazzina verde pisello in via Monginevro, e lo stabilimento, all’angolo di corso Racconigi,il dopolavoro di piazza Robilant. Soltanto ruspe, polvere e progetti, di altro, di altri. Il grattacielo è rimasto sempre al suo posto, deserto, inutile quasi, ultimo testimone di un’epoca torinese e nazionale che non esiste più. La storia di cento anni è stata cancellata, Sergio Marchionne ha scritto la lapide. La Lancia è un ricordo che è sopravvissuto a fatica nei modelli e modellini contemporanei. L’Impero della casa madre, la Fiat, ha srotolato il tappeto nero sul tavolo da gioco di «Censin » Lancia che ai principi del secolo passato incominciò l’avventura. Con cinquantamila lire e l’amicizia di Claudio Fogolin, Vincenzo Lancia decise di mettersi in proprio: già si dilettava alla guida delle vetture di Agnelli, già aveva fatto esperienza in quella fabbrica, ma era il tempo di provarci da solo. I primi anni del Novecento rappresentavano la spinta ideale per l’iniziativa privata e la scoperta del motore a scoppio segnava l’avvio di un’era di pionieri e di genialità italiana. La Lancia è stata,a lungo,l’auto dei signori, dei borghesi, dei medici, degli avvocati, di quella classe di mezzo, non sbruffona, che evitava la sfacciataggine nervosa dell’Alfa Romeo e l’anonimo stile delle Fiat. Era un giocattolo più caro delle concorrenti ma, per questo, diversa dalle altre, per stile, per comfort, per eleganza. L’album di fotografie di famiglia offre immagini bellissime: l’Aprilia e l’Ardea, quasi sempre di colore verde scuro bottiglia,veicoli di un’Italia sull’orlo del precipizio della guerra. L’Aprilia fu messa sul mercato a 23.500 lire, l’Ardea a 26.500, mentre la 1100 Fiat stava a 20.750. La benzina razionata e il blocco della circolazione non frenarono l’affermazione dei due modelli. Il Dopoguerra, faticoso per tutti, ma non per l’industria automobilistica, portò al lancio della vettura del secolo, l’Aurelia, con tutte le sue variazioni dalla B20 alla B 12 e, in cima alla storia, la B24, lo spider disegnato da Pininfarina, celebrata da Gassman e Trintignant ne Il Sorpasso . Quattro anni soltanto di produzione e di vita, proprio fantastici, l’ultima idea di avanguardia della casa torinese. Era l’automobile del sogno, della corsa nel vento, dell’acchiappo. Di contro l’Appia rappresentò il modello casalingo ma dell’eleganza, quattro porte, due antivento, l’allestimento interno in panno azzurro, beige o in pelle, con un plaid per evitare di sgualcire quei paramenti, la guida a destra, l’autoradio senza antenna ma inserita nello specchietto retrovisore, il simbolo di una distinzione effettiva. Vennero poi la Flavia e la Fulvia coupé HF, elegante, sportiva, vincitrice di rally, l’auto dei giovani rampanti, questa davvero la stazione di arrivo rivoluzionaria di Lancia prima dell’ammiraglia Flaminia riservata al capo dello Stato, classica, monumentale, da cerimoniale di sfilata. Sembra un elenco di caduti, tale è alla luce dei nuovi mercati, ma è l’annuncio di una sconfitta, violenta, tristissima, di un marchio italiano che ha fatto storia fino a quando ha potuto camminare con le proprie forze. La morte prematura, per infarto, di «Censin», l’eredità prima di sua moglie, poi del figlio Gianni, il passaggio al gruppo Pesenti, con alcuni intrecci anche con il Vaticano, l’arrivo della Fiat sono stati gli ultimi chilometri faticosi e rassegnati di una azienda che per un secolo ha rappresentato non soltanto un marchio ma l’onore e l’orgoglio di essere italiani. A Torino la gente passa ancora sotto il grattacielo di via Lancia. Ma non guarda più in alto. *** Una dinastia «da corsa» finita con la tragedia di Ascari Gianni, il figlio del fondatore, mollò tutto dopo la morte del suo pilota Piero Evangelisti L’automobile ha 126 anni di vita,il marchio Lancia soltanto 20 in meno, un lungo cammino in comune destinato a interrompersi al più tardi quando la Ypsilon avrà esaurito il suo potenziale in Europa dove lo «scudo» di Torino, sempre più debole nell’export, è da tempo relegato. È la fine di un accanimento terapeutico, dicono in molti nel capoluogo piemontese, fatto sta che un altro nome di quelli che hanno fatto la storia dell’automobile sta per uscire di scena. Cosa succede, in una famiglia, quando il proprio cognome - nel nostro caso quello del fondatore Vincenzo Lancia- è destinato ad abbandonare le vetture di serie? Nessuno vuole rilasciare dichiarazioni ufficiali, su tutti l’anziano e riservatissimo figlio del fondatore, Gianni Lancia, che nel 1955- dopo la morte di Alberto Ascari al volante di una Lancia D50 da competizione- diede il via al passaggio della Casa cedendo il suo pacchetto azionario a Carlo Pesenti, proprietario dell’Italcementi, che l’avrebbe traghettata in Fiat nel 1969. Del marchio di famiglia, dicono i bene informati, Gianni Lancia non ha più voluto sapere nulla fin da allora, e nemmeno delle sue vetture che non ha più guidato, mentre a curare, in maniera ufficiosa, la memoria delle auto storiche della Casa, ha continuato, per passione, il cugino di Gianni,l’ingegner Manfredi Lancia.In futuro - chissà che il pensionamento del marchio non si trasformi in uno stimolo positivo - la villa dei Lancia di Fobello, in provincia di Vercelli, inserita nello splendido scenario del Parco Naturale della Valsesia, potrebbe diventare una casa-museo dove celebrare le straordinarie vetture create da Vincenzo Lancia, prima, e da formidabili ingegneri come Vittorio Jano dopo la scomparsa del fondatore.I problemi finanziari creati dall’impegno sportivo ai massimi livelli, non bastano a spiegare un distacco così radicale, come quello di Gianni Lancia, da un marchio che a metà degli Anni ’50 con l’Aurelia faceva girare la testa agli automobilisti di tutto il mondo. Ma la riservatezza piemontese non fornisce ulteriori motivazioni. Continuare a produrre vetture con il proprio nome ininterrottamente dalla fondazione è del resto privilegio di pochi, come accade in Italia a Piero Lardi Ferrari con i bolidi di Maranello o in Germania ai Porsche con le sportive di Stoccarda. Resiste, tra i costruttori generalisti, la dinastia Peugeot, ma anche per gli eredi del geniale Armand le cosestanno cambiando perché il marchio soffre di eurocentrismo, un po’ come Lancia anche sein maniera non così acuta, in un periodo in cui il mercato continentale è in crisi profonda, e una parte delle quote societarie della famiglia sono stare cedute a General Motors per dar vita ad una nuova partnership. A Torino, comunque, l’orgoglio di chi ha memoria e passione per l’automobile è stato profondamente ferito dalle dichiarazioni di Sergio Marchionne. Si rimugina su quello che si sarebbe potuto fare per la Lancia, ma poi subentra la rassegnazione per un esito in fondo previsto.