Claudia Colasanti, il Fatto Quotidiano 31/10/2012, 31 ottobre 2012
La riscoperta di Guttuso l’artista che fece epoca Si deve prendere atto di quanto il gusto degli italiani oscilli, perché l’odore dell’inattualità pervade un artista idolatrato e con la stessa intensità detestato come Renato Guttuso, ricco “di una ricchezza concreta che viene solo dal lavoro”, pittore ‘realista’ di mano e di irremovibile ideologico concetto
La riscoperta di Guttuso l’artista che fece epoca Si deve prendere atto di quanto il gusto degli italiani oscilli, perché l’odore dell’inattualità pervade un artista idolatrato e con la stessa intensità detestato come Renato Guttuso, ricco “di una ricchezza concreta che viene solo dal lavoro”, pittore ‘realista’ di mano e di irremovibile ideologico concetto. Scomparso nel 1987, viene celebrato per la prima volta con una vasta antologica al Vittoriano di Roma, città che ha rappresentato, per cinque decenni, il centro della sua vita artistica e il palcoscenico di infinite, prolifiche (e contraddittorie) relazioni. PER IL PITTORE siciliano più popolare dagli anni Trenta in poi si tratta di venticinque anni di assenza mediatica, dopo altrettanti di straripanza figurativa e di massiccia presenza sulle pareti di ogni salotto degno di questo nome. La mostra romana coglie la possibilità di riproporne l’opera su un piano diverso grazie alla nitidezza e qualità formale delle scelte: frutto di una selezione severa, concentrata solo sui dipinti più importanti, monumentali (come I funerali di Togliatti, che arriva dal MAMbo di Bologna e Caffè Greco (1976) dal Thyssen-Bornemisza di Madrid) e priva degli orpelli e delle occasioni di pettegolezzo che avevano caratterizzato gli ultimi decenni di vita dell’artista, compresa la sfrenata passione per il corpo femminile, ritratto all’infinito su carta. Racconta Alessandro Nicosia, Presidente di Comunicare Organizzando (che dal ’97 gestisce l’attività artistica del Complesso del Vittoriano), che “Guttuso, con la sua vasta produzione, in alcuni periodi esagerata, si poteva raccontare solo così, attraverso il setaccio e la testimonianza di due figure di fedele riferimento, il critico Enrico Crispolti, che segue da sempre il catalogo dell’opera, e il figlio adottivo Fabio Carapezza Guttuso, custode e creatore degli Archivi, impegnato a mantenere alto il profilo delle stime e in lotta perenne contro il proliferare dei falsi”. Sulla base di questo criterio di scelta e attingendo a importanti prestiti da musei italiani e esteri, si delinea un viaggio che parte dal 1930, con il Ritratto del padre (Gioacchino, cavaliere agrimensore di Bagheria), olio che già testimonia il segno nervoso e vibrante e la pittura scura e densa che Guttuso non abbandonerà mai, nemmeno sotto il fuoco incrociato delle più smaliziate avanguardie. È SODDISFATTO, Nicosia, per la folta affluenza di visitatori che la mostra sta ottenendo (rigore scientifico ma apertura verso la grande fruizione popolare è la sua filosofia) e per aver riportato in primo piano con una scelta accurata la storia di un artista italiano molto amato dal grande pubblico e dibattuto da parte della critica: “Guttuso apparteneva a un cotè ideologico, aveva un credo, era costantemente impegnato nella lettura realista della società che viveva, e abitava dentro le cose che vedeva. Coloro che oggi non condividono le sue idee non possono ignorare la costanza del suo impegno, anche creativo”. Si rileggono, riscoprendoli, i primi dipinti degli anni Trenta, già densi della sua cifra pittorica e costellati di gesti del vivere comune: autoritratti malinconici e descrizioni di mani nervose perennemente alle prese con una sigaretta accesa, oggetti che pretendono improvvisi primi piani: olii in cui il realismo convive con le suggestioni del Novecento italiano, fino a maturare il dolente e aspro simbolo del supplizio, la Crocefissione del 1940, capolavoro espressionista (con la Maddalena nuda, un ladrone rosso, un cavallo blu e gli strumenti del supplizio in primo piano) che tra furiose polemiche, sia dalla parte del clero che del fascio, lo renderà celebre ad appena trent’anni. È di quindici anni più tardi un’altra tela monumentale, proveniente dalla Galleria Nazionale di Parma: La Spiaggia del ’56, manifesto ancora diverso di un’altra Italia, quella che dopo la guerra è diventata disinteressata, scoppiettante e lasciva, il quadro che Roberto Longhi definirà come “uno dei più ambiziosi, ma anche coraggiosamente meditati, della pittura moderna, dopo La Grande Jatte di Seraut”. MUTATO il contenuto sociale, l’attenzione di Guttuso vira verso i fenomeni di massa, con lo stesso approccio realistico degli anni precedenti: l’enorme spiaggia di Ostia somiglia a un tappeto biancastro, quasi una nuvola, su cui poggiano donne corpulente e uomini rinsecchiti e scuri, intenti a far nulla, se non rigirarsi sotto il sole. Nel 1974, dopo il realismo illustrativo e celebrativo de I funerali di Togliatti (’72), dipinge La Vucciria, che donerà all’Università di Palermo, dopo aver definito ‘moralista’ il Consiglio Comunale che si era opposto all’acquisto. Eppure si tratta del quadro meno ambiguo, il più scevro da ogni esigenza narrativa, un dipinto descrittivo, centripeto e, soprattutto, profondamente metafisico (e infatti per Guttuso è Giorgio De Chirico il più grande artista italiano). La Vucciria è il flusso della vita che pone l’uomo sullo stesso piano dell’ambiente in cui vive: nella visione verticale, magistrale, di un vicolo al mercato, affollato di cassette, pesce, frutta, formaggi e ortaggi, c’è l’immagine della Sicilia, e quella del mondo, e delle persone che col mondo si mischiano senza esserne sopraffatte.