Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 29/10/2012, 29 ottobre 2012
La Fatwa dello stadio è per sempre – Dove vai se vuoi una pagnotta?”. Da un fornaio, immagino”
La Fatwa dello stadio è per sempre – Dove vai se vuoi una pagnotta?”. Da un fornaio, immagino”. “Dove vai se vuoi un cosciotto d’agnello?”. “Da un macellaio”. “Allora perché continui ad andare in quei fottuti locali per froci?”. Alla domanda del suo allenatore Brian Clough, l’attaccante Justin Fashanu preferì il silenzio. A cantare pensavano gli altri. Cori, striscioni e banane in campo. Ogni fine settimana, da quando le voci si erano trasformate in certezza e le sue preferenze oltre la porta di casa, in pubblico argomento davanti al tè delle 5. Fashanu rimase solo. Rinnegato dal fratello, inseguito dalla Polizia, messo nell’angolo dei “deviati” da tutte le tifoserie del Regno. Preferì impiccarsi. Sparire. Farsi dimenticare. A volte accade perché pressione psicologica collettiva, interessi societari e contestazione individuale coincidono. Altre perché una maglia è per la vita e svestirla lascia nudi. Quando un simbolo laziale, Lionello Manfredonia lasciò la Juventus per tornare a Roma dalla parte “sbagliata”, ebbe l’onore della fazione personalizzata. Il Gam, gruppo antiManfredonia. Coltellate, scissioni del vecchio Cucs della curva sud romanista, litanie domenicali e strappi al cuore. MARCO BALLOTTA, portiere della Lazio, il più anziano giocatore di sempre ad aver giocato in Serie A, si prese una secchiata d’acqua dalla terrazza di un albergo di Norcia, perché “colpevole”, secondo gli ultras, di “esse ‘na spia de Lotito”. Il ritmo di una mentalità “irriducibile” in cui comprensione e perdono sono al bando. È accaduto ad Antonio Candreva, accusato di romanismo e ora riammesso a corte dopo mesi. A Cassano e Ibrahimovic, impegnati a promettere amore eterno con cadenza semestrale e a ricevere insulti proporzionali alla bugia. Ai “politici” come Di Canio, Lucarelli o Paolo Sollier tra pugni chiusi e boschi di braccia tese. Se la stinta identità della bandiera ha abituato le curve a considerare passeggero anche l’idolo e le società si sono adeguate in fretta esiliando in Australia anche i monogami alla Del Piero, nelle pieghe del racconto si avverte soprattutto l’assenza di un contraltare plausibile. Di una figurina come Gianfranco Zigoni in grado di sovvertire il quadro trascinando pavoni al guinzaglio. O di un eroe mancato di nome Cristiano Doni, perdonato da Bergamo una prima volta per il calcioscommesse e poi lasciato andare con maledizione eterna “infame” e “venduto” di fronte all’evidenza. Il rumore ha le sue regole. Pretende il rispetto della filologia sentimentale. Il dare. L’avere. In proporzioni variabili. Si può essere travolti per manifesta incapacità e mancata sottomissione (nella stagione scorsa la contrattata spoliazione dei giocatori del Genoa opposto al Siena, Beppe Sculli escluso, vale come enciclopedia del genere) o perché si è guccinianamente “negri, ebrei o comunisti”. Dal cappio protoleghista al collo di un fantoccio nero calato al Bentegodi, benvenuto dei tifosi del Verona all’olandese Maickel Ferrier che saggiamente emigrò a Salerno, alle scritte neonaziste sui muri del Friuli dirette ai natali della punta israeliana dell’Udinese Ronny Rosenthal. In quel caso, come in altri, è pronta la giustificazione di regime. L’indisposizione, il mal di schiena, l’esito negativo della visita medica. Il pallone è omertoso, ma non dimentica. Basta un gesto o un labiale in diretta tv per guadagnarsi il rancore perenne. A Francesco Guidolin, colto a esclamare: “Città di merda” mentre guidava il Bologna, ogni ritorno in Emilia costa attenzioni non benevole. Per un dito medio o peggio, se si gioca a calcio, si dimostra complicato anche uscire di casa. Accadde ad Astutillo Malgioglio, portiere e galantuomo e ad Angelo Pagotto, altro pesce nella rete pescato nell’attimo del vaffanculo verso la bolgia torinista nell’eccitata sede di uno spareggio di fine anno. Quando arrivò al Torino, sei anni dopo, non mise mai piede in campo. DI POVERI cristi smarriti nel-l’eccesso fatale di confidenza è pieno l’almanacco. La rabbia torna indietro e diecimila voci ostili possono più di qualunque considerazione tardiva. Se hai le spalle larghe e l’indifferenza di Fabio Capello, puoi allenare anche a Baghdad. In caso contrario l’incomprensione spezza i rami e fa cadere a terra senza possibilità di rialzarsi. A Cagliari, nel-l’ottobre 2007, giocano due buoni amici. Davide Marchini e Pasquale Foggia. Il primo è un onesto pedatore, il secondo un talento appena convocato in Nazionale. Un tunnel, un peccato di lesa maestà, due schiaffi, un allenamento che degenera. Poche ore dopo, per un chiarimento, Marchini e Foggia si incontrano in un bar di Cagliari. Con Foggia c’è anche Marco Marzano, tifoso personale di “Pasqualino”. Uno che alle parole preferisce i fatti. “Non lo devi fare più”. Volano pugni, ferite rimarginate ed emarginazioni ancora in corso. Il processo riprenderà a dicembre. Robert Acquafresca, spettatore involontario, all’epoca tesserato del Cagliari, dice di non aver visto perché fuori dal bar “a fare una telefonata”. Le carriere sono lunghe. Se corri fatichi a parlare. I tamburi battono il tempo a memoria. O con me. O contro di me. Un anatema è per sempre.