Martino Cavalli, Panorama 1/11/2012, 1 novembre 2012
CHI VUOLE UCCIDERE L’ACCIAIO *(SOLO QUELLO ITALIANO, PERÒ)
Questo paese non può essere che l’Italia, dove la vicenda dell’Ilva di Taranto, al di là dello scontro sui risultati dei riscontri epidemiologici, rischia di creare un’ondata di ostilità nell’opinione pubblica e di travolgere così l’intero settore siderurgico, mettendo in difficoltà buona parte dell’industria nazionale. Genova e Novi, Torino e Racconigi, Paderno Dugnano, Legnaro, Marghera, Salerno e Patrica, e poi ancora Gattinara, Vado Ligure, Massa e Grogastu, Brescia. Fin qui la lista degli impianti Ilva e di quelli ausiliari sui quali si ripercuoterebbe lo stop alla produzione di Taranto. Ma poi ci sono il settore delle costruzioni e l’industria dell’auto, la meccanica, gli elettrodomestici, la cantieristica, la grande carpenteria. Così, nell’ipotesi di una chiusura di Taranto e di dovere quindi rimpiazzare oltre 5 milioni di tonnellate di prodotti siderurgici, la Confindustria ha calcolato un danno al sistema Paese tra 6 e 9 miliardi di euro, sommando il valore dell’import (4-6 miliardi), gli extracosti per logistica, gli oneri e i servizi aggiuntivi, la cassa integrazione e l’impatto di una minore capacità di spesa per 15 mila persone.
Intanto, quale che sia l’esito dello scontro sull’Ilva, un primo effetto già si sta verificando: l’Italia sembra volere accelerare sull’introduzione delle Bat (Best available techonologies), cioè le «migliori tecniche disponibili» per rilasciare le autorizzazioni ambientali, anche dove non è previsto. Non solo per l’Ilva di Taranto, che le deve applicare da subito malgrado le prescrizioni Ue le prevedano per il 2016, quindi tra quattro anni, ma anche in altre regioni e per impianti completamente diversi. Invece negli altri paesi l’industria siderurgica chiede di rimandare gli investimenti per renderli economicamente sostenibili. «E in Germania lo ha già ottenuto: 6-8 anni per l’adeguamento anziché i quattro previsti dalla Ue; ora lo chiedono anche francesi e olandesi» spiega Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e amministratore delegato di Duferco, gruppo siderurgico controllato dalla sua famiglia che nel 2011 ha fatturato 7 miliardi di dollari con stabilimenti produttivi a Brescia, ma anche in Belgio, Francia, Danimarca, Macedonia, Guatemala, Sud Africa. Un gruppo globale, insomma, che offre una posizione privilegiata per guardare all’estero e capire meglio i fatti italiani.
Presidente, il caso Ilva rischia di travolgere l’intera industria siderurgica italiana. Si passa da un estremo a un altro?
Temo di sì, la vicenda Ilva rischia di diventare emblematica per i comportamenti delle Arpa (le agenzie regionali per l’ambiente, che rilasciano le autorizzazioni, ndr).
Si spieghi meglio.
C’è una siderurgia che inquina di più, quella degli altoforni, e una che inquina molto meno, quella con i forni elettrici. Nel primo caso c’è rimasto solo Taranto, perché gli altri due altoforni sono della Lucchini, a Piombino e a Trieste, e il loro destino è segnato dalle vicissitudini di quell’azienda.
Invece il forno elettrico?
È il sistema di produzione di tutto il resto della siderurgia italiana, tutta Brescia per intenderci, ma naturalmente non solo.
E che cosa sta succedendo?
Succede che sull’onda del caso Ilva le Arpa stanno rivedendo gli accordi già chiusi anche con le acciaierie che hanno il forno elettrico, e che dunque sono molto meno inquinanti. Per esempio la Regione Lombardia ci ha detto: è vero, siete i più bravi d’Europa, ma dovete fare di più. Così si provocano pesanti squilibri competitivi.
Teme una caccia alle streghe?
C’è la preoccupazione che si facciano strada comportamenti antiindustriali tout court. E che la vicenda Ilva possa essere un terremoto per l’intera filiera. Non voglio neanche pensare a cosa succederebbe se si arrivasse alla chiusura dei forni elettrici.
E invece l’altoforno si può sacrificare?
Non scherziamo. Come dicevo, ci resta solo quello di Taranto, dopo che Severstal, l’azionista russo della Lucchini, ha lasciato le chiavi alle banche e se n’è andato (proprio in questi giorni si sta cercando di salvare le sorti del gruppo con la ricerca di un nuovo investitore, ndr). In Europa ci sono oltre 10 impianti in funzione, 2 in Francia, 2 in Gran Bretagna, 2 in Germania. Sono spesso nel cuore delle città, come per esempio a Marsiglia, oppure a Duisburg, a Gent, e nessuno pensa di chiuderli. Anzi proprio in Francia…
Che cosa fanno i francesi?
Il governo socialista di Hollande sta cercando un compratore per non chiudere un impianto del gruppo Mittal.
Perché è necessaria la produzione degli altoforni?
Perché nei forni elettrici si usa il rottame e l’acciaio non può avere la stessa qualità di quello prodotto nell’altoforno, dove si usa solo la materia prima, molto più pura.
Adesso che cosa teme?
Il rischio è che si crei un clima in cui si dice: se non si produce l’acciaio è meglio. Dobbiamo assolutamente contrastare questa ondata luddista, l’Italia non se lo può permettere se vuole restare un paese manifatturiero.