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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

LO STATALISMO AMMAZZA IL PAESE

[Si annida nei gangli del sistema, perché ne è il pilastro] –
Nonostante «la cultura antistatalista sia maggioritaria nel Paese», in realtà «un movimento liberale di massa non c’è mai stato». Di più: costituirlo sembra opera improba. Questo per un vizio di genesi: «In Italia non è stata una democrazia politica a costruire lo Stato.

Al contrario, la democrazia politica ha assunto la gestione e l’ammodernamento dello Stato sabaudo preesistente». Per un fatto culturale: «La forte spinta statalista esercitata dalla prevalenza culturale dell’industrialismo. Che ha sempre visto come unici poli della dialettica politica l’industriale e l’operaio». E per un patto costituzionale tra culture stataliste, tutt’oggi blindatissimo «a causa di un limite di conservatorismo». I lettori di ItaliaOggi conoscono già Sergio Soave; il politologo fotografa da anni le italiane cose con i suoi fondi sul nostro giornale. Questa volta, il giornale ha deciso di intervistarlo, per scavare alle radici del suo pensiero. Inchiodato dalle domande, stanato alla sua parsimonia verbale, Soave accende a intermittenza i suoi riflettori sulla storia recente. Una serie di suoi flash illumina i brandelli di un sistema partitico decotto e di un paese «espropriato di sovranità». E sebbene la sua dialettica abbia al contempo tonalità soavi (nomen omen) e freddezza analitica, il puzzle che ricompone non lesina certo le unghiate.

Domanda. Professore_

Risposta. Intanto non sono un professore

D. D’accordo, come la chiamo?

R. Mi chiami Soave, Sergio Soave.

D. Bene, Soave. ItaliaOggi ospita i suoi fondi. Vere e proprie radiografie di un paese iperstatalista. Insiste spesso sul punto.

R. Il peso che lo Stato ha in Italia è superiore a quello che ha in gran parte dei paesi europei, per non parlare dell’America. E questo nonostante le privatizzazioni fatte, che, poi, sono state privatizzazioni sui generis. Prenda le banche: sono controllate da fondazioni che, alla fine, dipendono da enti locali e regioni. E, quindi, ancora una volta, dallo Stato. Abbiamo un problema: in Italia una serie di spese e di interventi, specie nelle regioni meridionali, vengono dallo Stato e dalle sue articolazioni burocratiche o territoriali. Il fatto che il Paese abbia struttura statalista non ha certo bisogno di dimostrazioni.

D. Succede anche al Nord. Ricordo la protesta del sindaco di Verona, Flavio Tosi, quando i libici aumentarono le proprie quote in Unicredit. Fece muro, attraverso la sua presenza nelle banche venete dell’universo Unicredit. Non si affidò al libero mercato_

R. Certo. Vede, quando io denuncio lo statalismo non lo faccio da anarchico. Non dico che bisogna abolire lo Stato. La funzione dello Stato, in una società moderna, è indiscutibile. Il problema vero è il rapporto costi/benefici di questa specifica organizzazione statale. La nostra.

D. Le cosiddette élite illuminate hanno storicamente guidato il Paese. Continuano a farlo?

R. Si illudono di farlo! La mia impressione è che il Paese non sia guidato, ma eterodiretto. Sottoposto a una sorta di sovranità limitata.

D. Eterodiretto da chi?

R. Dall’eurocrazia. In sostanza, dalla Germania.

D. È in atto un processo di accentramento, di «ri-giacobinizzazione» nelle strutture di potere? Il governo centralizza il potere nelle sue mani, sotto i colpi della crisi. E sega le gambe al federalismo?

R. Io, per la verità, non ho visto alcun processo federale, ne ho visto solo l’enunciazione degli obiettivi. Certo, qualche spostamento di spesa c’è stato. Ma nulla di rilevante. Se poi mi dice che la cultura federale, che era diventata centrale, oggi ha perso di efficacia, sì questo è vero. Ci sono singoli fatti, singole operazioni di immagine che danno questa sensazione. Ma, nella sostanza, la riforma federale non è stata attuata. Non c’è. E ora è naturale che si torni alla centralizzazione.

D. La riforma del Titolo V della Costituzione non ha nulla di federale?

R. Ah... è una boiata pazzesca! Se lei legge il primo articolo della riforma, che ha riscritto l’art. 114 della Costituzione, in esso non viene stabilito un sistema di gerarchia o suddivisione specifica dei poteri. Comuni, città metropolitane, province, regioni e Stato: tutti vengono messi sullo stesso piano. Si parla di poteri concorrenti, nell’illusione che concorrenti voglia dire «convergenti». E, invece, nella pratica concorrenti vuol dire poteri in competizione tra loro. Cioè in conflitto. Tant’è vero che quello sciagurato dispositivo ha generato una massa abnorme di ricorsi alla Corte costituzionale per conflitti di competenze.

D. Ma, col ri-accentramento dei poteri, stiamo dicendo addio al principio del controllo dei cittadini dal basso?

R. In realtà, le amministrazioni continuano a far ciò che facevano prima. E l’unico controllo dell’amministratore resta nella sua elezione dal basso. È questa l’unica vera forma di controllo del potere politico centrale. Ribadisco: io una effettiva federalizzazione del Paese non l’ho mai colta. E, peraltro, la considererei auspicabile.

D. In Germania, però, la struttura federale ha avuto funzione unificatrice. Ha consentito di unire le anime divise del Paese, in quello che Carl Joachim Friedrich definì un processo dinamico di «federalizing process». In Italia, invece, la parola federalismo ha assunto i connotati di una maggiore articolazione del potere sul territorio.

R. Iniziamo col dire che, in Germania, il federalismo è stato imposto dai vincitori della Seconda guerra mondiale. Winston Churchill voleva addirittura fare tre o quattro Germanie: l’idea era di impedire che la Germania tornasse ad avere un peso egemonico in Europa. Poi, però, venne la Guerra fredda, che ha imposto un cambio di prospettiva. E la necessità di valorizzare la Germania, come avamposto di frontiera del blocco occidentale.

D. Torniamo all’Italia. Nelle sue letture storiche del Paese ha scritto su ItaliaOggi che: «Socialisti e popolari, nati estranei allo Stato, tentarono di entrarci dentro per modificarne le strutture di potere». Ma, poi, «il sistema istituzionale elitario e solo formalmente liberale non resse alla loro spinta» e «per contrastarla, nacque un movimento antidemocratico di massa: il fascismo». È ancora così?

R. È ancora così. Un movimento liberale di massa, in Italia, non c’è mai stato. In qualche modo, Forza Italia ha tentato di dar corpo alle istanze liberali, che ci sono e sono perfino maggioritarie nel Paese. Ma, lo ha fatto in modo davvero discutibile. L’istanza liberale di Forza Italia è stata provocata più per effetto della caduta della Democrazia cristiana, che per una spinta autonoma alla costituzione di un partito liberale di massa. Poi, lo Stato ha respinto questa proposta liberalizzatrice. E anche quando questa spinta è riuscita a esprimersi in forme maggioritarie e legittime è stata respinta.

D. A cosa allude, quando dice legittime_

R. Beh, in passato, questa spinta antistatalista e liberale ha avuto forme spurie di espressione: penso al Separatismo siciliano, poi al movimento dell’Uomo Qualunque, fino alla protesta fiscale. Sono state molte le spinte in cui si è incanalata l’insoddisfazione del ceto medio produttivo urbano e rurale.

D. Ripercorrendo la storia del Paese, lei scrive che il tratto statalista contenuto nel Patto costituzionale del 1945 «non diede soddisfazione, nella Democrazia cristiana, alla volontà di autonomia degli uomini liberi e forti cui era stato inviato il messaggio originario di Luigi Sturzo». Poi la Guerra fredda congelò tutto. Ma il movimento antistatalista sturziano ha mai avuto cittadinanza nel Paese?

R. In Italia quel movimento ha avuto cittadinanza. Ancora oggi rappresenta una quota maggioritaria della popolazione. Ma è un movimento che non ha mai avuto una espressione politicamente autonoma. Vede, il Partito Popolare si esprimeva in forme antistataliste: era federalista, era legato alle autonomie locali, alla libertà individuale e alla libertà di impresa. Quando, dopo la Seconda guerra mondiale, i democristiani dovettero gestire tutte queste istanze, lo fecero ricorrendo a vecchi o rinnovati strumenti statalisti. Pensi a personalità di grande rilievo intellettuale e morale, come Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno: hanno costruito nuove forme, economicamente più avanzate, di statalismo. Bisogna poi aggiungere, che una forte spinta statalista è stata esercitata dalla prevalenza culturale dell’industrialismo. Cioè di una logica industriale, che vedeva come sorgenti essenziali dello sviluppo e poli della dialettica politica l’imprenditore industriale e l’operaio industriale. Erano ruoli quasi esclusivi della dialettica e dello sviluppo sociale.

D. E la dottrina sociale della Chiesa non ha influito in nulla?

R. Per la verità, la dottrina sociale della Chiesa, e parlo della dottrina, non della prassi economica della Dc, è basata sul principio di sussidiarietà: il contrario esatto dello statalismo. Fu inaugurata da Leone XIII, in aperta polemica con lo Stato sabaudo.

D. Ma le istanze sociali interpretate dalla Chiesa hanno spesso invocato l’intervento dello Stato. Soprattutto negli anni 70.

R. Guardi, la Chiesa ha sempre tenuto molto in conto la filantropia, che è un rapporto puramente privato. Altra cosa è che abbia raccolto e fatto raccogliere fondi, attraverso associazioni statali e non statali. Ripeto: quando denuncio lo statalismo, non sto dicendo che allo Stato non spettino dei compiti. Ma che questi compiti devono essere inquadrati in un sistema più liberale e aperto alle trasformazioni indotte dall’iniziativa privata. E dalla rappresentanza di quelli che la dottrina sociale della Chiesa chiama «corpi sociali». E questi, naturalmente, possono essere soggetti a un fisiologico conflitto civico, sociale di tipo liberale, o frutto di un «consorziamento» di tipo corporativo.

D. In sostanza, per lei conta il primato dell’individuo?

R. Più che dell’individuo della persona, un termine più antico e più efficace.

D. D’accordo, ma perché la via statalista ha avuto la meglio? Assenza di cultura storica liberale o, più semplicemente, superiorità del lascito napoleonico nella gestione dello Stato?

R. È una domanda difficile a cui rispondere. Bisognerebbe segmentare la storia. Certo è che tutti i tentativi di creare un ordine liberale nel Paese sono stati un fallimento. Il principale tra questi è stato quello Giolittiano. Poi quello di Sturzo. Ma, in entrambi i casi, è rimasta in piedi l’impalcatura dello stato sabaudo. Successivamente poi addirittura rafforzata dal Fascismo, in forme autoritarie. Ciò che è avvenuto dopo è stata una lodevole operazione di inserire questo Stato sabaudo in forme sopravvenute di democrazia.

D. In che senso?

R. In Italia non è stata una democrazia politica a costruire lo Stato. Al contrario, la democrazia politica ha assunto la gestione e l’ammodernamento di uno Stato preesistente. Di più: ne ha mantenuto e rafforzato alcuni aspetti, facendone lo Stato capitalista più interventista del mondo, lo Stato più socialista del blocco occidentale. Come? Nello Stato sono state mantenute l’Iri, l’Eni, le banche a gestione pubblica e così via. Tutti istituti che lo Stato aveva ereditato dal sistema Beneduce (da Alberto Beneduce, ndr), con le riforme economiche successive alla crisi mondiale del 1929. D’altra parte, va ricordato che alla nazionalizzazione si era arrivati per via del fallimento del grande capitale italiano industriale e finanziario. Le banche private non furono nazionalizzate per ideologia ma, semplicemente, perché erano fallite.

D. Anche in Gran Bretagna si nazionalizza quando le cose non vanno bene. Ma il sistema, poi, non diventa statalista. Perché?

R. Vede, in Italia non muore mai niente. L’eternità degli enti è uno dei dogmi del nostro Paese. Questo succede perché non c’è l’idea dell’economia che funziona come una foresta. In cui ci sono alberi che nascono e alberi che muoiono. C’è, invece, un’idea un po’ organicista: tutto quello che c’è per gli italiani è un organo indispensabile. Irrinunciabile. Questo è un tratto caratteristico del nostro Paese.

D. Veniamo agli ultimi anni. Lei citava Forza Italia. Ha scritto, che «i tratti anticentralistici, in sostanza antistatalisti, contenuti in Bossi e Berlusconi», pur vittoriosi alle elezioni «non hanno cambiato il paese». Perché la loro spinta antistatalista ha avuto la peggio?

R. Hanno avuto la peggio perché non sono riusciti a entrare effettivamente nello Stato, per cambiarlo. Lo Stato li ha respinti. È responsabilità loro non esserci riusciti. Ed è responsabilità di quegli altri non averli voluti integrare.

D. «Quegli altri» sarebbero quelli che lei, in un suo fondo, descrive come i rifugiati «nelle casematte del Quirinale, della magistratura organizzata, dell’eurocrazia», che hanno «goduto dell’appoggio della grande stampa».

R. Sì. Costoro hanno impedito ogni riforma della Costituzione. Non mi riferisco solo alla riforma federalista, ma anche a quelle più elementari. Come l’abolizione del bicameralismo perfetto. Riforme su cui, a parole, tutti erano d’accordo. Questo è successo perché c’è questo mito. Il mito della intangibilità della Costituzione; un limite di conservatorismo culturale del Paese. E questo accade perché la Costituzione fu un compromesso basato su una mentalità industrialista, fatto tra forze divise dalla Guerra fredda. Oggi, però, l’industria è stata largamente sorpassata dal terziario. E la Guerra fredda non c’è più. Quindi bisogna trovare un modo_

D. La crisi ci costringerà a cambiare?

R. Lo statalismo che scontiamo si basa su uno Stato inefficiente. Ora, la crisi dovrebbe costringerci a cambiare. Il Paese, costretto a prendere decisioni rapide, dovrebbe razionalmente assumere una rotta antistatalista. Oggi si fanno «quattromila» votazioni per approvare una legge; ci sono due Camere che lavorano per giorni sullo stesso testo. Abbiamo un migliaio di parlamentari, che non si sa cosa facciano. Non si conoscono ancora i veri poteri, quelli propri dello Stato, delle regioni, dei comuni. Tutto ciò genera gran confusione. Non si riesce a decidere nulla. Penso sia ormai insopportabile. A questo punto, la crisi dovrebbe costringere a cambiare. Ma, è anche vero che non è né la prima né l’ultima volta che c’è una crisi.

D. La ventennale tenzone tra Berlusconi e le vere o presunte «toghe rosse» è frutto di questo scontro tra antistatalisti e statalisti? Di un liberale assediato da quelli che lei dice essere «asserragliati nella casamatta della magistratura»? O è solo frutto di questioni private?

R. Non lo so e i singoli casi non mi interessano. E aggiungo che i termini che utilizzerò non hanno alcuna accezione negativa, ma solo descrittiva. Quel che constato è che le cose sono andate così anche su questioni che non riguardano Berlusconi. Prenda, per esempio, la questione Finmeccanica-Lega. Improvvisamente, nella vita del Paese, emergono situazioni che sembrano piazzate apposta al centro dell’attenzione politica. E incitano ad azzardare una riforma antistatalista. Si potrebbe dire, però, che il confronto tra giudici e politici antistatalisti è cosa vecchia: la storia è iniziata nel 1953 con il caso Wilma Montesi e l’inchiesta aperta dalla magistratura sul figlio di Attilio Piccioni, il vicesegretario della Dc, candidato a essere il successore di Alcide De Gasperi. Piccioni era portatore di una linea liberal-democristiana. Ma fu massacrato dalla magistratura e dalla stampa, senza che fosse stato commesso alcun reato. L’effetto di quella azione fu che la mano passò ai neostatalisti corporativi di Amintore Fanfani. Va anche detto, però, che nell’azione di Fanfani c’erano spinte innovative, sebbene racchiuse in un involucro ideologico statalista e corporativo.

D. Lei fa discendere il fenomeno Grillo dalla delusione delle istanze antistataliste e liberali, causate dal fallimento di Berlusconi e Lega. Ma Grillo i suoi voti dove li prende? Molti dicono a sinistra_

R. Questa storia, che qualcuno sa da dove vengano i voti è una cosa misteriosa. Ho visto quel che è accaduto a Parma e in Sicilia. Erano, entrambi, posti in cui il Centrodestra aveva la maggioranza assoluta. Che ha perso clamorosamente. Quindi, per mera coincidenza di eventi, bisognerebbe desumere che i voti ai «grillini» vengano da destra. In ogni caso, tutte le considerazioni possibili sui fenomeni elettorali sono ragionevoli. Solo che, quando si misurano gli spostamenti elettorali con le equazioni di retroazione, bisognerebbe tener conto che si ottengono risultati ragionevoli solo se i soggetti comparati sono gli stessi. Oggi, invece, siamo alla scomposizione della classe politica, alla divisione del Pdl e allo spostamento di coalizione dell’Udc_

D. A qualcuno Grillo ricorda Mussolini. È un fascista di sinistra?

R. Il fascismo è nato come movimento di sinistra. Ma credo che Grillo non sia né di sinistra né fascista. Ovviamente, nel senso che io do a queste parole. Perché hanno detto che Fanfani era fascista, che Berlusconi e Cossiga erano fascisti. L’unico che non chiamano più fascista è Fini! Che qualche vaga parentela politica con Giorgio Almirante pare ce l’avesse. Quindi, o diamo al termine fascista una sua connotazione storica, legata a quel movimento e a quel regime. O è una pura asserzione. Come lo è questa roba dell’antipolitica. Non si capisce cosa significhi... l’antipolitica.

D. Ma il fenomeno Grillo come lo interpreta?

R. Da comico, una volta, era divertente. Ma la sua affermazione è l’evidente espressione di una paura. È un rifiuto di elementi di modernità coniugato all’esaltazione di altri elementi moderni. Per Grillo va bene il web, ma non vanno bene le autostrade. Il genere politico, quindi, è il qualunquismo. Quello dell’Uomo Qualunque era un movimento simile al Grillismo. Lottava contro lo statalismo e contro gli eccessi di retorica antifascista.

D. Il Cinque Stelle è un movimento di destra, dunque?

R. Storicamente c’è stata una destra istituzionale e una destra rivoluzionaria. Lo stesso a sinistra. Nel M5S ci sono l’affermazione e l’esaltazione dell’individualità, ma c’è anche la negazione di esigenze di ordine scientifico, di sostegno al progresso scientifico. Quindi, ci sono istanze che si possono definire di destra. Se, però, assumiamo questo paradigma e pensiamo al movimento dei luddisti, che distruggevano i macchinari industriali per protesta, cosa dovremmo dire? Che erano di destra? E, invece, si definivano di estrema sinistra.

D. Lei considera «obsoleta la parte che definisce il funzionamento degli organi dello Stato». È per il Presidenzialismo?

R. Assolutamente si! Sono per il Presidenzialismo.

D. Perché?

R. Perché c’è già! Le decisioni fondamentali vengono assunte sempre al Quirinale. La vicenda del governo Monti lo rende ancora più evidente. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo ha persino ammesso onestamente, giustificando la cosa con la crisi. Ma allora, se nel momento delle crisi il Quirinale conta più di ogni altra cosa, perché non dare sovranità popolare a questa funzione? Sarebbe il modo di reagire all’antipolitica.

D. Come?

R. L’antipolitica nasce dalla convinzione che tutto si decida nei palazzi. Che il voto popolare non serva a nulla. Ma tutta la prospettiva dei palazzi culmina proprio nel Quirinale. Per non parlare delle decisioni che si assumono a Francoforte, nella Bce e nella Bundesbank. Allora, visto che non possiamo eleggere il presidente della Bce e non possiamo votare per il presidente della Bundesbank, quantomeno si dia sostanza democratica al ruolo che il Quirinale già ha. Poi, una volta deciso che il presidente della Repubblica verrà eletto dal popolo, si potrà fare un riassetto dello Stato in senso presidenzialista, toccando il rapporto tra capo dello stato, governo e parlamento. Ma, a mio avviso, l’elezione diretta del Quirinale sarebbe auspicabile perfino a Costituzione invariata. A quel punto, la tesi che non serve votare, perché tutto ciò che conta si decide nei palazzi, verrebbe spazzata via.

D. In riferimento al forte astensionismo in Sicilia, lei ha scritto che il crollo del muro di Berlino e «la fine della competizione tra ideologie compatte» hanno spostato «la funzione della partecipazione elettorale dalla difesa di una visione generale alla scelta tra opzioni di gestione della cosa pubblica, poco differenziate tra loro». I partiti dicono le stesse cose?

R. I partiti oggi dicono cose diverse, ma poi faranno le stesse cose. In parte, perché sono obbligati a farlo: la sovranità limitata dell’Italia si traduce in una sovranità limitata delle regioni, poi dei comuni, e cosi via. In secondo luogo, nessuno vuole, o almeno proclama, di voler passare a un regime sociale diverso, nell’ambito del capitalismo. Così, date le condizioni in cui versa lo Stato assistenziale, tutti si barcamenano più o meno nella stessa maniera.

D. C’è un pensiero unico?

R. C’è un potere concentrato fuori dalle istanze democratiche. Più che un pensiero unico, c’è un potere unico.