Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 02 Venerdì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

DOHA — Il primo sospetto viene salendo sull’aereo della Qatar Airlines: ai passeggeri viene consegnato con una certa cerimoniosità un beauty di Salvatore Ferragamo. Poi bastano un paio di giorni a Doha, la capitale dell’emirato del Qatar, per scoprire che qui il made in Italy non solo piace ed è chic, come in tutta la penisola arabica. Ma guadagna. In Qatar le aziende italiane non conoscono la crisi. Lo sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, a capo del governo, è stato di recente in visita a Roma dove ha incontrato Mario Monti promettendo investimenti. Il premier ricambierà la visita a stretto giro a novembre. E, possiamo esserne certi, andrà in un ristorante italiano. Non è solo cortesia diplomatica: a Doha si smette di lavorare subito dopo pranzo. L’ora di punta per il traffico è dalle 14 alle 15 e 30. Il clima, caldo e umido, favorisce i pomeriggi nelle piscine tra grattacieli e gru. Poi, la sera, quelli che se lo possono permettere si ritrovano nei ristoranti italiani. Tutte le catene alberghiere che contano, come il Marriott e il Four Seasons, hanno affidato il locale di punta a chef italiani. I Porcini è uno di questi, all’interno del complesso del Ritz Carlton. «La nostra cucina è considerata la migliore — testimonia il maître Umberto Pannella — i cittadini arabi amano molto il risotto con i porcini e anche il tartufo bianco di Alba. Facciamo venire tutto dall’Italia». Ma passando da Dubai. L’economia del Qatar è in esuberante crescita: rispetto agli altri emirati è partito in ritardo ed è piccolo. «Tutta Doha è grande come un quartiere di Riad» raccontano con ironia i sauditi. In effetti i residenti ufficiali — al netto dei malesi e cinesi che lavorano nei cantieri giorno e notte — sono poco più di 300 mila. Meno di Bologna senza studenti. Eppure ora è il Paese dell’area che sta crescendo maggiormente. Importando tutto. Il Qatar è desertico. Non ha industrie. Ed è questa la fortuna delle aziende italiane: non solo investe sui brand nostrani (la Mayhoola for Investment, società riconducibile allo sceicco, ha di recente acquistato per 700 milioni la quota in Valentino di Permira) ma ha bisogno di aziende di costruzione e servizi per concretizzare i piani di crescita immobiliare. Lo skyline si sta arricchendo di grattacieli che, come raccontano i tassisti, vengono riempiti continuando a spostare i dipendenti dei ministeri. A luglio l’Anas si è aggiudicata una gara da 50 milioni di euro per la fornitura di servizi di assicurazione e controllo della pavimentazione stradale. Impregilo ha portato a casa una commessa da 100 milioni per progettare e costruire un collettore di drenaggio per la raccolta delle acque piovane. Recentemente anche Ansaldo Sts è stata sugli scudi in Borsa in vista di un’assegnazione di gara sempre qui. «Le aziende italiane hanno avuto commesse per circa 700 milioni nei primi sette mesi del 2012: 100 milioni al mese» fa i conti l’ambasciatore italiano a Doha, Andrea Ferrari. E non sono solo grandi gruppi. L’8% del fatturato (38 milioni all’anno) della fabbrica veronese di piastrelle Stone Italia, per esempio, viene dal Qatar. Inutile dire che i nostri architetti sono molto apprezzati. Doha non ha velleità turistiche: la mega-spiaggia finta di Dubai è troppo vicina. Ma forte dei petrodollari e dei proventi del gas (ci fornisce il 10% del fabbisogno nazionale) si può permettere di continuare a costruire per sostenere il proprio prestigio internazionale. Fuori città è in corso la progettazione di una nuova mini-metropoli fatta di grattacieli per 450 mila persone che non ci sono. La speranza è comprare a 150 per poi rivendere a 200 in una girandola che a Dubai conoscono bene perché c’è chi è rimasto con il cerino in mano.
Per adesso di questa crescita a Doha sta beneficiando il tessuto imprenditoriale italiano. Le ragioni sono condivise con tutta la penisola arabica: forza dei brand e vicinanza geografica. Ma ci sono anche ragioni «personali». Lo sceicco è legato all’Italia anche dai ricordi degli anni Novanta quando depose il padre Khalifa bin Hamad Al Thani che si trasferì a Roma. Ancora oggi lo sceicco ama venire in visita non ufficiale nella capitale in vesti «civili». Sarà per questo che la sua italianità viene completata anche dalla passione per il calcio: ha ottenuto già dalla Fifa la nomina per i campionati mondiali del 2020. Il pallone in Qatar è molto amato. Tanto che le voci di un interesse del fondo sovrano per il 30% del Milan sono state considerate credibili in Borsa. Pare che lo sceicco farebbe di tutto per avere la nostra nazionale di calcio e un evento del genere potrebbe essere un ulteriore spinta per gli affari in loco delle nostre aziende. Chissà, magari il pallone potrebbe anche aiutare ad ottenere una conquista sociale: sembra incredibile ma il governo qui può levare il «diritto di uscita» a un cittadino straniero. La chiamano la «schiavitù moderna». Dopo la diplomazia del ping pong potrebbe funzionare quella del calcio italiano.
Massimo Sideri