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 2012  novembre 02 Venerdì calendario

La causa maggiore della raccomandazione, in Italia, è proprio quella che ha messo in risalto il direttore generale dell’Aler: funziona

La causa maggiore della raccomandazione, in Italia, è proprio quella che ha messo in risalto il direttore generale dell’Aler: funziona. Nella pratica, non c’è un giudizio diffuso che sia di sincera condanna. Anzi, a molti sembra un sistema di vita che ha una sua efficienza. In un libro di qualche anno fa, intitolato La raccomandazione, l’antropologa americana Dorothy Louise Zinn diceva che il sistema comincia dalla nascita. Quando un italiano è pronto per venire al mondo, le probabilità che sua madre, appena arrivata in ospedale, abbia chiesto, tramite vari gradi di conoscenza, una stanza singola per starsene in pace, sono molto alte; ed esercita tramite terzi pressioni sulle infermiere, esprimendo la volontà di avere il proprio figlio tra le braccia, qualche minuto in più del consentito. Cioè, nella sostanza: qualche minuto in più degli altri. Il sistema si alimenta fino alla fine dell’esistenza. Subito dopo, i congiunti si muovono tra conoscenze varie per ottenere un funerale migliore e una posizione favorevole al cimitero. In mezzo ai due punti estremi, ci sono le scuole, i concorsi, il lavoro; ci sono i posti al teatro, le file da saltare, i passaporti, i posti auto, un tavolo in giardino al ristorante, il pesce più fresco in pescheria, e via con un elenco lunghissimo di eventi minuscoli o sostanziosi nei quali la differenza la fa il tuo pacchetto di conoscenze, il minor grado possibile di separazione dal potente di turno. La vita di un italiano, a prescindere dalle grandi corruzioni che sono in atto da tempo e che in queste settimane esplodono alla vista di tutti, è legata alla raccomandazione come a uno statuto naturale. Le tangenti, le minacce, le pressioni, gli imbrogli e le corruzioni sono conseguenza (quasi) naturale di un sistema di vita basato sul concetto di disuguaglianza. Perché in fondo la raccomandazione non serve ad altro che a creare una differenza tra me e tutti gli altri. Io voglio ottenere tramite una rete di amicizie cose, posizioni e rendite migliori; agli altri, lascio il resto. Non voglio accettare le regole condivise con la mia comunità: voglio qualcosa in più. Cioè: voglio vivere meglio degli altri. Una comunità dovrebbe basarsi sul concetto contrario. Cercare cioè di ottenere il meglio per tutti. La raccomandazione invece distribuisce disparità, e come conseguenza crea sfiducia nella neutralità. Se vado al ristorante, in fondo ho paura che mi rifilino cibo meno buono, perché non mi conoscono. E il cibo buono lo riservino per coloro che hanno ottenuto la raccomandazione. Ma non mi rendo conto che tale pratica l’ho messa in moto io tutte le altre volte. La vita italiana, nella sostanza, è modellata sull’ossessione che si ha in provincia: lì, non conta cosa vuoi fare, ma quante persone conosci. Ora, non tutti gli italiani che praticano la raccomandazione quotidiana sono abili a farne una pratica di corruzione ad alto livello. Però è come se qui la vita fosse un continuo allenamento, una lunghissima preparazione atletica, minuziosa e quotidiana, al malcostume, alla disuguaglianza dei diritti, alla propensione al privilegio. E quindi, chiunque abbia il talento di approfittarne, arriva con il massimo della preparazione. Il problema, però, non è se ogni italiano sia propenso a diventare il protagonista delle ruberie della scena italiana. No: quello che riguarda tutti noi, è se abbiamo la forza di riconoscere, indignarci e reagire, quando qualcuno procede per vie traverse — noi che siamo abituati fin dalla nascita a vivere in un mondo così. E ci sembra anche che, un mondo così, bene o male, abbia funzionato.