Gaia Piccardi, Corriere della Sera 2/11/2012, 2 novembre 2012
DAL NOSTRO INVIATO
SYDNEY — Non è vero che Alessandro Del Piero se la tira. Non è vero che è troppo serio. Non è vero che è timido. È vero che è circospetto e magnetico: uno Scorpione doc. Ha ritenuto opportuno trincerare il suo mondo interiore dietro al filo spinato; ma se avverte vibrazioni positive, come è generoso di partite (800 presenze: 705 Juve, 91 nazionale, 4 Sydney Fc) e gol (289-27-3), è generoso di sé. Del Piero è un uomo misterioso per sua stessa ammissione. Ciò che cela, fa parte integrante del suo fascino sottile. Intervistarlo non è facile. Ma se abbracci la sua naturale discrezione, anziché giudicarla, dentro la miniera trovi le pepite d’oro.
Del Piero, in questo calcio che brucia tutto velocemente, incluse le bandiere, si sente mai un panda che andrebbe protetto dal Wwf?
(ride) «Ma no, a me importa essere me stesso, fare le mie scelte lucidamente. Quello che conta è il bilancio fin qui, e io sono felice della mia carriera alla Juve e del mio presente a Sydney».
Ma ha coscienza della sua «diversità»?
«Ho coscienza che quello che è successo a Torino nella mia ultima partita in bianconero (Juve-Atalanta, 13 maggio) è uscito da tutte le regole del calcio».
Cioè la partita interrotta da un’ovazione.
«Mi ha toccato nel profondo. Ho cercato di restare distaccato. So di aver fatto cose importanti, di aver realizzato i miei sogni. Se ti rendi conto della fortuna che hai, puoi goderti meglio le conquiste».
«Ho lavorato molto sul mio autocontrollo», ha detto. Non è che ci ha lavorato troppo? Quell’ovazione non avrebbe forse meritato un piccolo gesto di follia?
«Tolta la maschera pubblica, sono diverso. Ma sento la responsabilità di essere un modello per i giovani, come lo furono i miei idoli per me. Credo sia giusto dare segnali positivi. Non vuol dire essere finti: vuol dire essere coscienti, responsabili».
«Vincere è un’ossessione, quando perdo il dolore è insopportabile». Quali sono le radici di questo feroce giudice interiore?
«Quel pensiero è stato il motore, e il perno, della mia vita. Da bambino stavo male se perdevo a calciobalilla: non potevo fare a meno di misurare il mio valore con le vittorie. È qualcosa che ho dentro dal giorno in cui sono nato».
Oggi, a 38 anni (li compirà venerdì 9), non ha cambiato punto di vista?
«Oggi mi rendo conto che l’ambiente che ho frequentato, cioè quello molto competitivo del calcio in Italia, mi ha condizionato. E vivere in Australia mi fa assaporare cose diverse. Però anche a Sydney la gente viene allo stadio per vedermi vincere e segnare...».
Cosa è rimasto di lei a Saccon, frazione di San Vendemiano, di materiale e spirituale?
«Moltissimo. Mia madre Bruna vive ancora nella casa dove sono cresciuto. Mio fratello e la sua famiglia sono lì, come i miei vecchi amici. Altri ne ho a Torino, la città di mia moglie. Altri me ne farò qui, e non è detto che non ci possa rimanere».
Con l’età ha imparato a dire qualche «ti voglio bene» in più, per non avere rimpianti come dopo la morte di suo padre Gino?
(sorride commosso) «Eh, ci sto lavorando... Sono passato da una volta al mese a tre: in famiglia c’è gente sconvolta! Di sicuro la morte di mio padre è stato uno spartiacque importante».
Perché sua moglie Sonia dice che a Sydney la vede diverso?
«Arrivo da anni molto impegnativi e di grande stress. Soprattutto l’ultimo, a Torino, è stato tosto. La lontananza, il clima, l’ambiente australiano mi hanno reso più libero, sì».
Con i suoi tre bimbi fa il padre come lo faceva il suo con lei o si concede un’interpretazione personale del ruolo?
«Spesso mi chiedo cosa farebbe mio padre al mio posto. È un riferimento molto presente: mi ha lasciato tanto anche se parlava pochissimo».
Il pallone, in fondo, è stato un surrogato?
«Non lo so... So che dai 5 anni in poi per me è esistito solo il calcio. Con i miei figli cerco di essere più presente: uno dei miei sogni è che un giorno pensino di me quello che io penso di mio padre. Sarebbe un trionfo».
Il miglior allenatore che ha mai avuto: quello che l’ha fatta giocare sempre?
«Questa sarebbe un’ottima risposta... In realtà c’è Lippi, con cui ho avuto una storia di 7 anni. E poi gli altri, per periodi più brevi. Ho cercato di prendere il meglio di ciascuno».
Il compagno più illuminato.
«Zidane e Baggio, due geni. In nazionale mi ha sempre impressionato Paolo Maldini».
Un gol. Uno solo.
«Assist di Zidane in un Juve-Brescia al Delle Alpi: gran palla da centrocampo, di piatto, a tagliare la difesa. Mi trovai da solo davanti al portiere. Spettacolo».
Un amico vero nel calcio.
«Angelo Di Livio. Abbiamo una storia comune, cominciata a Padova e proseguita alla Juve. Mi ha vissuto da vicino come pochi altri. Non è vero che non c’è amicizia nel calcio, anche se gli amici del cuore sono quelli del paese».
Cosa la fa ridere?
«Le cose buffe. Una smorfia di Tobias, una parola storpiata da Dorotea, una reazione imprevista di Sasha. Ma i bimbi sono fuori classifica: mi rendono la vita talmente più bella...».
Cosa la fa piangere?
«Certi film, anche da ridere! Sonia ormai lo sa: quando le scoppia la risata, si gira e magari mi vede con gli occhi lucidi».
Cosa la fa indignare?
«Le violenze sui bambini».
La persona più carismatica che ha mai incontrato?
«Quando arrivai a Torino, l’Avvocato mi colpì molto. Ero in soggezione: lui era davvero di un’altra categoria».
Confessi: il soprannome Pinturicchio le è mai piaciuto?
«Diciamo che non ho mai fatto a botte per farmici chiamare!».
Si chiede quale mondo lascerà ai suoi figli?
«Ogni giorno. Anche se sono preoccupato, mi sforzo di pensare al futuro con ottimismo. Vedo i miei bimbi come tre cuccioli, vorrei proteggerli e prepararli al domani con libertà mentale».
Tornerà in Italia per votare?
«Sarà dura».
Ha sempre votato?
«Noooo... Alcune volte ero impegnato».
Se fosse americano, rivoterebbe Obama?
«A me piace. Mi trasmette carisma, mi sembra un uomo giusto. E avere fiducia in un uomo giusto mi fa sentire bene».
Beppe Grillo la fa più ridere come comico o come tentativo di uomo politico?
«Come comico mi faceva impazzire. Come politico, da qui, non saprei giudicare».
Andrea Agnelli dopo 19 anni ha messo fine alla sua storia alla Juve. Che sentimento prevale in lei, pensando al presidente della Juve?
«L’ho detto alla Gazzetta (indifferenza, ndr) e non desidero altre polemiche. La verità? Sono felice di tutto quello che ho fatto, zero rimpianti. Le decisioni vanno anche rispettate. E poi conta il presente, non il passato».
Da grande si vede più dirigente o allenatore?
«Ho sempre pensato che, una volta smesso, avrei preso le distanze dal calcio: sono quasi 40 anni che gioco... Però mi rendo conto che il legame con questo sport è viscerale. Non sono più disposto a giurare che non farò mai l’allenatore: magari qui a Sydney, dove tutto è così diverso».
Tra cento anni, come le piacerebbe essere ricordato nel suo ambiente?
«Come il migliore».
Soltanto? Auguri.
«È quello che sognavo da piccolo. Essere un giocatore unico, uguale a nessun altro».
Crede nel destino?
«Eccome. Ma credo anche di avere tutto in mano per poterlo determinare».
Dopo tanti anni, cosa non abbiamo ancora capito di Alessandro Del Piero?
«Che conduco più vite parallele. Non sono finto ma ho la capacità di sdoppiarmi. Ci sono tanti aspetti di me poco conosciuti, anche se ho lasciato in giro indizi, come i templari. Dicono: Del Piero non fa mai polemiche. Ma io ho tirato legnate a destra e manca di cui non vi siete mai accorti! In campo sono un figlio di buona donna: la furbata, il colpetto, faccio di tutto per vincere. Poi vado a casa e mi sciolgo con i miei figli. Ho protetto la mia vita privata per poter esprimere il lato più vero di me pienamente. Di quella sono molto geloso. Per me è importante. Anzi, vitale».
Lei ha l’aria pacificata di chi nella vita fa esattamente ciò che è venuto a fare.
«La mia più grande fortuna non sono i soldi: è aver trasformato in lavoro la mia passione. Ci sono volte in cui sono dilaniato dai dubbi, ho avuti infortuni che avrebbero potuto stroncarmi la carriera. Sono un essere umano. È nella semplicità che, spesso, trovo conforto. Ci sono arrivato col tempo e la maturità: leggendo, studiando...».
Parliamone.
«A Torino c’era una persona con cui mi confidavo. Ho letto le prime 50 pagine di Gustav Jung ma mi manca dimestichezza con la psicoanalisi: non devo far passare troppo tempo tra una pagina e l’altra, sennò mi perdo. Anche nei tarocchi c’è profondità: basta avere la curiosità di spingersi oltre in questo mondo in cui vogliamo tutto e subito».
Quando è partito alla ricerca di sé?
«Nel 2001, quando morì mio padre. Arrivavo da un momento difficile: mi tormentavo per la forma fisica e i gol. Poi mi cade in testa la tegola: ho tutti i soldi del mondo e non posso fare niente. Malattia incurabile. Una botta terrificante. Ecco, permettermi di rimettere tutto in prospettiva è stato un altro dei grandi insegnamenti, muti, di mio padre».
Gaia Piccardi