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 2012  novembre 01 Giovedì calendario

SENZATETTO, QUEL 23% CHE NON VOTERA’ MAI

La fila dei senzatetto non si cu­ra del day after. La si può in­travedere mentre New York si riprende lentamente dallo schiaffo dell’uragano Sandy a un paio di i­solati di distanza da Lafayette Street, in quel Lower East Side che da sempre è un deposito di me­morie urbane sbiadite da un se­colo: gli irlandesi, gli ebrei, gli i­taliani, i cinesi, razze e etnie che negli ultimi centotrenta anni hanno trovato una seconda pa­tria nel nuovo mondo.
Non c’è più John Dos Passos a rac­contare nel suo Manhattan Tran­sfer il mosaico frammentato del­le mille storie di speranza o di tra­gedia, ma la nuda cronaca citta­dina di una New York che è spec­chio fedele e insieme irripetibile di un’America carica di contrad­dizioni, e che ci fa capire imme­diatamente perché queste perso­ne non andranno mai a votare. Siamo in Orchard Street, davanti al Tenement Museum, che ripro­duce per il visitatore incredulo i fetidi alloggi dove si assembrava­no migliaia di immigrati. Ma a noi sembra quasi che questo secolo non sia affatto trascorso.
«Non ho assolutamente tempo per iscrivermi alle liste», spiega com­punto un signore di mezza età di nome James che ha tutta l’aria di essere precipitato di recente nel gorgo umiliante dell’indigenza. Il tempo, a ben vedere, ce l’avrebbe, visto che è disoccupato, ma il suo atteggiamento non fa che confer­mare la diffusa convinzione che vi sia una correlazione diretta fra red­dito e partecipazione elettorale.
Ci soccorrono le cifre: secondo il Center for Economic Opportunity (Ceo) il numero di newyorkesi che vivono al di sotto della soglia di po­vertà è aumentato dal 2010 a oggi di almeno 100mila unità, toccan­do un tasso del 21%, che sale sopra il 23% se si considerano le famiglie con figli: come dire 1 milione e 700 mila persone che non raggiungo­no i 23mila dollari di reddito an­nuale, cifra che in Italia sarebbe ancora ragguardevole, ma che nel­l’America di Medicare e del welfa­re azzoppato è il limite al di sotto del quale si comincia ad annaspa­re. Ispanici, asiatici e neri si spar­tiscono equamente questa mesta torta della povertà, seguiti da un piccola porzione di bianchi che hanno perduto il lavoro.
Inutile fare accademia sulle inten­zioni di voto dei tanti che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena: «Semplicemente non vote­ranno – dice Horace Silber, del Ceo – per due ragioni: innanzitutto per­ché New York è saldamente demo­cratica, non c’è gara tra Obama e Romney, ma la seconda è di ordi­ne essenzialmente sociale: troppo poveri per pensare di iscriversi al­le liste, troppo depressi dalla crisi che dura dal 2007, troppo preoc­cupati per quello che potrebbe ac­cadere a fine anno». Già, perché dal 1 gennaio si profila il temutis­simo fiscal cliff, quel baratro dei crediti e dei benefici fiscali che si spalancherà in concomitanza con la fine dei bonus promossi cinque anni prima da George W. Bush e che per gli individui assediati dal­la povertà si traduce tuttora nei food stamps , i buoni governativi che consentono di acquistare be­ni di prima necessità nei super­mercati. Oltre un milione di newyorkesi ne fanno uso, e il nu­mero è in crescita costante.
Povertà ed esclusione sociale, un binomio raggelante con risvolti statistici altrettanto drammatici: i suicidi (32 mila su scala naziona­le) sono il doppio degli omicidi, poco meno di centomila famiglie si sono viste tagliare la fornitura di gas per morosità, le tasse sco­lastiche sono cresciute oltre il 400% e solo uno su dieci fra i ra­gazzi che vivono in famiglie pros­sime alla soglia di povertà riesce ad arrivare all’università. C’è di più. Gli infaticabili sociologi fede­rali associano anche il livello di i­struzione alla propensione al vo­to: solo il 39 per cento di chi non ha un diploma secondario va a vo­tare, mentre l’83% di coloro che hanno un’istruzione universitaria si reca abitualmente alle urne.
Una delle peggiori gaffes di Mitt Romney riguardava proprio il li­vello di povertà. «Parlava a nome dell’1 per cento della gente – dice Sonia Epstein, volontaria per il Co­mitato di rielezione di Obama – di­menticando il restante 99 e di­sprezzandone almeno la metà, che lui chiama parassi­taria e capace solo di lamentarsi». Non sappiamo se dav­vero metà degli a­mericani passino il tempo a lagnarsi e a scroccare i genero­si sussidi che Oba­ma gli garantisce, certo è che quell’1 per cento a cui Romney fa orgo­gliosamente riferi­mento in effetti esi­ste: a New York un centesimo degli abitanti si mette in tasca il 40% della ricchezza del­la metropoli, ci sono almeno ot­tanta miliardari in dollari con un divide, un vallo fra ricchi e poveri, che suggella un’ineguaglianza nel­la distribuzione della ricchezza da far impallidire quella delle mega­lopoli africane. Sui poveri di New York Romney non fa alcun affidamento: «Il mio compito – ha detto, ma poi si è pentito e ha fatto marcia indietro – non può essere quello di preoc­cuparmi di loro, non li convincerò mai di assumersi le loro responsa­bilità personali e prendersi cura di loro stessi». Secondo il Census Bu­reau (l’Istituto di statistica federa­le) almeno il 63% degli americani andrà alle urne, ma le classi meno abbienti non raggiungeranno il 52%, creando così quello che a tut­ti gli effetti appare come un evi­dente paradosso: i destinatari na­turali del sistema assistenziale che Obama difende (come lo difende­va Clinton) sono quelli che più di­serteranno i seggi.
Un dato su tutti: nel 2008 l’attuale presidente incamerò il 95% del vo­to nero, ma solo il 65% degli elet­tori neri si recò a votare. Ecco per­ché perfino a New York, dove l’esi­to e scontato, schiere di attivisti de­mocratici battono i boroughs me­no fortunati, Staten Island, Queens, Bronx, invitando quella schiumosa sottoclasse che ancora si illude di essere middle class a da­re il proprio voto al presidente ne­ro. Che nello Stato di New York cer­tamente vincerà, com’è tradizione, ma chiunque sarà il nuovo presiden­te non potrà chiu­dere gli occhi e vol­tarsi dall’altra par­te: la Grande Mela è un’eloquente alle­goria di un sistema che per assicurarsi un benessere che il resto del mondo forse non raggiun­gerà mai paga lo scotto di 40 milio­ni di poveri, in pratica una nazio­ne popolosa come la Spagna, ai quali almeno uno dei candidati vorrebbe sottrarre quel poco che lo Stato gli garantisce. In nome di un condiviso malthusianesimo, di un invecchiato lassez-faire, di un liberismo anarcoide, in buona so­stanza di un controllato egoismo che si smalta in superficie di quel caritatismo compassionevole caro a George W.Bush e al partito re­pubblicano. Per il quale i poveri, i perdenti, i disagiati sono solo un immenso fastidio.