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 2012  novembre 01 Giovedì calendario

MILANO — È

il tempo che passa, è la storia che continua: l’8 novembre Sandro Mazzola compirà 70 anni. E ne sono passati 50 dai giorni in cui si è conquistato un posto da titolare nell’Inter. Era il 4 novembre 1962, Inter-Venezia 2-0. Non è più uscito fino al 3 luglio 1977, la domenica della sua ultima partita (un derby). Mazzola ha accettato l’invito del Corriere della Sera ed è venuto in via Solferino a raccontare una piccola parte della sua immensa storia.
Quanto ha pesato esser il figlio di Valentino Mazzola?
«Moltissimo. C’è stato anche un momento in cui avevo deciso di smettere con il calcio e di darmi al basket. Mi voleva l’Olimpia Borletti, dopo avermi visto in un torneo scolastico al campo della «Forza e Coraggio». Giocavo play e non ero male. Ad ogni partita di calcio, invece, dovevo sentire qualcuno del pubblico che diceva: quest’ chi l’è minga bun, l’è minga el so papà. Magari lo diceva una persona sola, ma a me sembrava che fossero mille. Per fortuna mio fratello Ferruccio è intervenuto: ma dove vuoi andare? Noi siamo fatti per giocare con i piedi, quelli invece lo fanno con le mani... È stata la svolta della mia vita».
È stata dura conquistarsi un posto da titolare nell’Inter?
«Tanto. Herrera era avanti anni luce rispetto alla media degli allenatori. È toccato a lui rivoluzionare gli allenamenti; a noi sembrava matto, ma da ragazzo, quando mi allenavo con le giovanili e guardavo che cosa facevano quelli della prima squadra, restavamo incantati. Lui allenava prima le testa e poi le gambe. E soprattutto: dieta rigida e massima professionalità. Lui veniva dal Barcellona e in Spagna andava di moda il 4-2-4. Ma allora non c’era la tv come adesso e non lo capivamo. Mi voleva far giocare attaccante, ma i difensori picchiavano e io pesavo soltanto 63,300 chili; io, anche pensando a mio padre, mi sentivo centrocampista. Nel campionato ’61-62 mi aveva fatto giocare l’ultima partita con il Lecco, una partitaccia, mai visto il pallone; poi niente, finché è venuto il mio momento: prima a Palermo, poi con l’Atalanta, infine con il Venezia e da lì è cominciata la storia. Alla fine del ’62-63 è arrivato il mio primo scudetto. Non avevo ancora 21 anni».
Si ricorda ancora il suo primo contratto?
«Indimenticabile. Il presidente Moratti era venuto a Bologna a vedere una partita del campionato riserve. Io avevo fatto un grande gol e lui mi aveva imposto a Herrera. Guadagnavo 40.000 lire al mese e in casa di soldi ce n’erano pochi, nonostante i sacrifici del mio patrigno, una persona eccezionale e di mia mamma. Dopo le prime partite da titolare mi chiamò la segretaria del presidente per il contratto. Moratti sapeva tutto di me e alla fine mi disse: tredici milioni di ingaggio vanno bene? Stavo per svenire. Mi dette anche sette milioni di conguaglio per il pregresso. A casa, mia mamma mi disse: te capì mal, te se sunà come una campana».
La grande Inter non è mai stata una squadra di amici: è vero?
«No. Il problema erano i ritiri; siccome eravamo sempre insieme, quando Herrera, che era un cerbero, ci lasciava liberi, ognuno tornava a casa. Ma in campo eravamo uniti, un gruppo di ferro. Una volta contro il Borussia Dortmund, per difendere Jair, cercai di picchiare due tedeschi che erano il doppio di me».
Una volta vi siete anche ammutinati...
«Per forza, avevamo vinto il secondo titolo mondiale contro l’Independiente, settembre 1965; eravamo tornati a Milano alle due del pomeriggio e lui ci voleva portare in ritiro alle sette. Picchi, il nostro capitano in tutti i sensi, decise per l’ammutinamento e noi gli andammo dietro, dopo aver avvertito Moratti. Il giorno dopo Herrera non voleva nemmeno che ci allenassimo. Il presidente ci chiamò a rapporto: multa di un milione. Una brutta botta. Tre giorni dopo però battemmo l’Atalanta e Moratti, entrando negli spogliatoi, annunciò: bravi, premio extra di due milioni. Il doppio della multa».
Suarez ha cambiato la storia di quella Inter...
«Io ho imparato tantissimo da lui. Si allenava anche il lunedì e mi spiegava: se lo fai, al martedì sei al 30% in più. Ho imparato da Luisito anche l’importanza di mangiare bene. Portava sempre una valigetta, contro la dieta del Mago: c’erano viveri e una bottiglia di vino. Del resto con Herrera qualche accorgimento dovevi prenderlo. In lui ho rivisto Mourinho: ha riportato la palla al centro dell’allenamento e lavora anche lui prima sulla testa».
C’è un punto di contatto fra Moratti padre e figlio?
«In alcune cose si assomigliano, anche se io vedo il papà con gli occhi di un ragazzo di vent’anni e Massimo con quelli di un uomo e di un professionista. Ma lui ha preso dal padre in molte cose».
Lei ha fatto tutto nel calcio: qual è il mestiere più difficile?
«Il dirigente, senza dubbio. Quando giochi, metti in campo le tue qualità e se non sai ti arrabatti. Da calciatore hai una fortuna: in 90’ c’è un pallone e c’è un avversario e dipende tutto da te. Il dirigente conta all’inizio della stagione, quando deve fare scelte delicate. Poi è nelle mani degli altri».
L’acquisto più importante della sua vita?
«Lui, Ronaldo, anche per il modo in cui quell’acquisto è maturato. Maggio 1997: Cragnotti una sera mi chiama dal Sudamerica e mi chiede notizie sui contratti di immagine e altro. Capisco che sta comprando un campione. Penso alla Spagna e al Fenomeno. Chiamo Fioranelli e fa catenaccio; chiamo Branchini e mi insulta: voi non mi comprate mai un giocatore da me, non rompere. Però riesco a parlare con Ronie, che è in rotta con il Barcellona: se l’Inter mi prende, vengo subito. Guadagnava nove miliardi netti all’anno più clausola rescissoria di 49 miliardi. Abbiamo attivato gli sponsor, Nike e Pirelli; Moratti prima era dubbioso, ci ha pensato due ore e dopo ha dato il via libera all’operazione. Alla fine l’abbiamo preso».
Fra Ancelotti, Paolo Rossi, Vierchowod, Platini e Falcao: quattro campioni, che non sono arrivati all’Inter fra il ’78 e l’84. Qual è il rimpianto maggiore?
«Platini: il più grande, per le doti individuali e perché ci avrebbe consentito il salto di qualità».
Forse lei diventerà presidente del comitato regionale lombardo della Lega Dilettanti. Quali sono i difetti del calcio di oggi?
«Siamo pieni di stranieri, che vengono da Paesi dove giocano a calcio per strada. Questo dovrebbe farci riflettere. Oggi nell’allenamento dei giovani c’è troppa tattica e c’è troppa atletica. Invece il pallone deve diventare una cosa loro, com’era ai nostri tempi. Noi eravamo dribblomani ed è stato giusto migliorare sul piano atletico. Ma ora stiamo eccedendo».
Com’è l’Inter di oggi?
«L’ultimissima Inter mi piace, mi sembra che Stramaccioni le abbia dato una mentalità giusta, senza essere troppo rinunciataria, ma sapendo di dover essere ancora guardingo. Non so quante squadre hanno tre attaccanti come l’Inter. Io Cassano non lo avrei preso, ma avrei sbagliato».
Alessandro Bocci
Fabio Monti


GLI AUGURI DI RIVERA
RIPRODUZIONE RISERVATA I ntanto auguri, Sandro. Con affetto e sincerità. Sul traguardo dei settant’anni sei arrivato prima tu. Io li compirò solo l’anno prossimo: almeno sull’età sarai sempre davanti a me, niente «staffetta» per una volta. Anche questa storia della staffetta ha veramente stancato: noi in nazionale giocavamo sempre insieme e avremmo continuato a farlo senza quella sciagurata trovata di Valcareggi. Tu eri infuriato perché eri costretto a lasciare spazio a me, io ancora più arrabbiato perché entravo in campo troppo tardi. A rovinare tutto, non solo la reputazione azzurra, fu la sconfitta con la Corea nel 1966: fosse rimasto, Fabbri avrebbe puntato decisamente su noi due e su Bulgarelli. Ma credo che anche il resto d’Italia ci avrebbe voluto vedere sempre in azzurro, contemporaneamente. Perché noi eravamo diversi, ma complementari, e avevamo una tecnica indiscussa. Poi, è chiaro, ognuno per la sua strada: la tua nerazzurra, la mia rossonera. Non è solo questione di colori, ma anche di stile di vita, di abitudini, perfino di orari: voi dell’Inter vi allenavate la mattina, noi al pomeriggio. Nel 1968 abbiamo fondato, insieme a Campana e Bulgarelli, il primo sindacato giocatori italiano, e anche lì abbiamo dimostrato tutto il nostro coraggio e la nostra coesione. Non siamo mai stati degli «amiconi», ma tra di noi c’è sempre stata grandissima stima e rispetto. Hai fatto una grande carriera da giocatore e poi da dirigente: spero che tu possa continuare a dare il tuo prezioso contributo al nostro calcio. A cominciare, mi auguro, dalla presidenza del comitato lombardo della Figc dilettanti. Mi viene da sorridere quando qualche giocatore viene benevolmente considerato «il nuovo Sandro Mazzola»: è già stato un miracolo che ne sia esistito uno, sei stato irripetibile. Negli auguri che ti mando, ce ne metto uno speciale rivolto agli allenatori dei settori giovanili: meno tattica, meno agonismo. Insegnate ai giovani la tecnica, altrimenti di Sandro Mazzola non ce ne saranno più.