Giovanni Sartori, Corriere della Sera 1/11/2012, 1 novembre 2012
governare, né come possa davvero ridurre la disoccupazione riportandola a livelli fisiologici. All’inizio Monti governò spesso e volentieri per decreto e con frequente ricorso alla fiducia
governare, né come possa davvero ridurre la disoccupazione riportandola a livelli fisiologici. All’inizio Monti governò spesso e volentieri per decreto e con frequente ricorso alla fiducia. Ma poi ha sempre più cercato di governare in sintonia con il Parlamento. Farebbe bene se il suo tempo (il tempo del suo governo) non fosse oramai corto, e se il Parlamento non fosse oramai in febbre elettorale, e cioè nel momento nel quale i parlamentari sono al loro peggio. Una ipotesi è che Monti sia ora frenato dal presidente Napolitano, uomo di lunga esperienza parlamentare che resta legato a quel suo passato. Ma proprio non so. So però che di questo passo Monti arriverà al termine del suo mandato con poco di concluso e troppo ancora da concludere. Ma vediamo i problemi. Non c’è dubbio che il primo e inderogabile problema di Monti sia stato di salvare il Paese dalla insolvenza e dalla catastrofe finanziaria evidenziata da un debito che è oramai arrivato al 126 per cento del Pil, del Prodotto interno lordo. A questo punto un Paese non ha più soldi da spendere per investire, dal momento che tutti i suoi introiti sono assorbiti dal pagamento dei servizi, del suo personale e degli interessi dei suoi debiti. Questa era senza dubbio la prima inderogabile priorità da affrontare, e Monti l’ha affrontata con successo pieno in termini di riconoscimento internazionale. Ma con meno successo in termini di entrate fiscali. Se si punta, come è doveroso, sulla lotta alla evasione fiscale bisognerà derogare alla linea dei tagli eguali per tutti. Se il Fisco deve incassare di più, allora deve essere rafforzato e non indebolito. Risparmiare sulla Guardia di finanza è come fare il notissimo dispetto alla moglie. Comunque, fin qui il governo Monti ha (più o meno bene) affrontato il problema prioritario che doveva affrontare. Resta l’altro problema, che è di tutt’altra natura, di come affrontare e ridurre la disoccupazione soprattutto giovanile. Su questo punto quasi tutti gli economisti ciurlano nel manico. Scrivevo (voce nel deserto) quasi vent’anni fa che la disoccupazione nei Paesi diciamo «ricchi» diventa una conseguenza inevitabile e facilmente prevedibile (anche se il grosso degli economisti non lo ha previsto) della «globalizzazione» mal fatta, male o punto meditata, che abbiamo attuato. Ripartendo dall’inizio, nel secondo dopoguerra l’economia si è man mano divisa in due settori: produttivo e finanziario. Il primo si interessa ai beni tangibili; il secondo è di carta (carta moneta, si intende). E le ultime generazioni degli economisti si sono buttati e specializzati nel secondo, che è anche l’economia dei guadagni smisurati, dei «soldi facili». Così l’economia di moda, in auge, fa finta di non vedere, o effettivamente è cieca e non vede, che la disoccupazione dell’Occidente è frutto della differenza, della grandissima differenza dei costi di lavoro tra Paesi benestanti e Paesi malestanti. La regola, o diciamo pure la legge, è che «a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro (anche dieci volte meno) andranno a disoccupare i Paesi ad alto costo di lavoro». Ovvio? A me sembra ovvio. E questa è la causa primaria, di fondo, della nostra disoccupazione crescente. Si capisce, questa legge non è senza eccezioni e per ora non tocca tutti i Paesi di Eurolandia. Ma la linea di tendenza, purtroppo, è questa. E non raccontiamoci la favola che la nostra economia produttiva (di beni) ripartirà tra un anno o due. Mi vorrei sbagliare. Ma temo di no.