Massimo Lopes Pegna, Sportweek 27/10/2012, 27 ottobre 2012
BROOKLIN LA CASA DEL BASKET
Pensi che sotto la Avenue Z ci sia il nulla. Del resto, sono finite le lettere dell’alfabeto. Invece, d’incanto ti appare Coney Island con le giostre un po’ sgangherate, il piccolo stadio del baseball e le spiagge che negli Anni 50 erano rinomate come oggi gli Hamptons della vicina Long Island. Lì, a un passo c’è un playground mitico: The Garden. Il primo del nostro viaggio, in cui scopriremo un valore comune: l’orgoglio ritrovato, grazie a una squadra di basket, di una città (la quarta più popolosa degli Stati Uniti) schiacciata per decenni dalla fama della rutilante Manhattan. Come se l’arrivo dei Nets, il primo team di professionisti a sbarcare a Brooklyn dopo che i Dodgers di baseball hanno traslocato in California nel 1957, avesse l’effetto di un forte ricostituente.
Per essere esatti, 24 settembre 1957: la data che molti degli anziani seduti sul lungomare in legno ricordano senza dover consultare gli almanacchi. Lo chiamano il giorno del tradimento. Come spiega a Sports Illustrated Jerry Reinsdorf, proprietario dei Chicago Bulls e originario di queste parti: «Quando i Dodgers se ne andarono fu come un colpo al cuore per un’intera città: la nostra dignità andò all’inferno». Aggiunge Ralph Branca, uno dei giocatori che all’epoca militava nei Dodgers: «La nostra squadra teneva la comunità unita. Poi è stato come se gli abitanti di Brooklyn fossero diventati di seconda categoria rispetto a quelli di Manhattan. È stato così per anni. Ma oggi con l’arrivo dei Nets ritorna lo slogan di una volta che la dice lunga sul nostro spirito combattivo: Brooklyn contro-tutti».
Sul recinto del Garden, un nome che evoca quello autentico, c’è ancora una scritta: «Il Garden è come un giardino. Il signor Lou era il giardiniere e noi siamo stati i suoi fiori». Lou era una sorta di agente che aiutava i talenti locali a trovare sistemazione al college, togliendoli dalla violenza delle strade. Uno di questi fiori è stato Stephon Marbury, uno dei pochi finiti davvero sul parquet del Garden, quello dei sogni.
E qui Spike Lee, anche lui di Brooklyn, nel 1998 ha scelto di girare una delle scene più famose del suo film. He Got Game, con protagonista Ray Allen. Proprio Spike, fanatico ultrà dei Knicks, nato in quel maledetto 1957, chiarisce: «Sono da sempre un tifoso di New York e continuerò a esserlo, ma se fossi oggi un ragazzino di dieci anni, Brooklyn sarebbe la mia squadra».
Ecco che ricompare il pride, l’orgoglio di appartenenza e di rivalsa della gente di qui. Per capire meglio, bisogna fare diversi chilometri verso nord ed entrare nel quartiere poco amichevole di Bedford-Stuyvesant. L’angolo delle magie con un pallone da basket è dove Foster e Nostrand Avenue si incrociano. Là, c’è Foster Park che, se solo l’asfalto potesse parlare, racconterebbe la storia di James Fly Williams, una delle grandi leggende metropolitane della zona. Era la risposta di Brooklyn a Earl "the Goat" Manigault e tanti altri che si esibivano a Rucker Park ad Harlem. Fly aveva i capelli afro, che infilzava con un inseparabile pettine, portava pantaloni coloratissimi e in faccia aveva stampato un perenne sorriso di sfida. È dentro questa storica gabbia che troviamo Dwayne Greene. Osserva un gruppo di amici sfidarsi e ci invita a sedersi accanto a lui. «Lei vuole sapere di Fly, vero?». Allora attacca con un aneddoto che chissà quante volte avrà ripetuto: «Avevo dieci anni e l’ho visto con i miei occhi Fly, mentre saltava e toglieva un quarter dalla cima del tabellone. E c’ero anche quando segnò più di cento punti in una partita di torneo: ne fece 45 per una squadra, poi passò dall’altra parte e ne mise dentro 55». Uno dei giocatori ci raggiunge preoccupato: «Ehi, dov’è andato a finire il fotografo?», chiede. E aggiunge: «Sa, qui è meglio non avventurarsi troppo da soli». Già, perché è difficile bonificare quartieri come questi, ma dai tempi di Fly la situazione è migliorata. Lui è uno di quelli che quasi ce l’ha fatta. Discreta carriera in college, ma quando andò ai Denver Nuggets e poi agli Spirit di St. Louis nell’Aba durò soltanto un paio di anni: perché chi nasce nei playground digerisce male la disciplina del professionismo. Spiega Greene: «Oggi i tempi sono cambiati: chi ha talento non vede l’ora di andare all’università e poi nella Nba. Ma allora la Nba era così grandiosa». Fly rapinò una banca e gli piantarono una pallottola in un polmone: ecco come finì la sua carriera. «Oggi si fa ancora vedere da queste parti: aiuta i ragazzini a non prendere le sue stesse decisioni sbagliate», ammonisce Greene. Poi alza la mano e fa il segno di pace con le dita: «Ne sono certo, i Brooklyn Nets toglieranno un bel po’ di negatività a questa città e la faranno riapparire sulla mappa dell’America. I giocatori diventeranno gli idoli dei nostri figli. E magari Deron Williams e compagni verranno a Foster Park per mandarci un messaggio di incoraggiamento».
Scrive Rick Telander, autore di Heaven is a playground (il paradiso è un playground): «Brooklyn ha più canestri che Harlem, Bronx, West 4th st., Chicago, Los Angeles e Philly». Ancora il tema della rivalità fra quartieri e la questione di chi può fregiarsi dei più celebri giocatori nati su questi spicchi di cemento dimenticati da Dio. Come Pee Wee Kirkland, che con le sue giocate aveva fatto sbalordire Harlem. Ma anche Soul in the Hole (Anima in Buca), il nome poetico affibbiato al playground su Tompkins Avenue, sempre a Bedford, per via del campetto scavato un metro sotto il livello della strada. Dopo trent’anni, lì nei pressi, c’è ancora un ristorante che si chiama La casa che Pee Wee costruì. Già, lui, Pee Wee Kirkland, rimasto famoso come "la leggenda dei due giochi". Intendevano il basket, naturalmente, ma anche lo spaccio di droga. Finì in prigione: per otto anni, in cui divenne una star della squadra del carcere. L’ultima nostra tappa è a Marcy Houses, sempre a Bedford-Stuyvesant: un gruppo di case popolari di sei piani a mattoncini color ruggine, come tutti i Project della zona. Sei ragazzini giocano a basket nel playground che sta all’interno e ci indicano l’edifico numero dieci: quello dove è nato Jay-Z. Un bambino vivace che sparò a suo fratello per impedirgli di rubare i gioielli di famiglia. Jay-Z, come la Avenue Z, a un passo dall’Oceano dove oltre non ti puoi più spingere. Come la musica rap che gli ha permesso di uscire dal ghetto e salvarsi dalla violenza di queste strade. È la storia che si chiude. Alcuni anni fa, Jay-Z è diventato proprietario di minoranza dei New Jersey Nets con in testa un sogno: restituire dignità a questa città rimasta ferita mortalmente quel 24 settembre 1957.
Basta con i giocatori-leggenda dei playground, le cui prodezze tramandate con il passaparola li rendono più simili a fantasmi. Dal 1° novembre, sul parquet del modernissimo Barclays Center, non troppo lontano dalla criminalità di questi quartieri, ci sarà da fare il tifo per dei campioni in carne e ossa: i Brooklyn Nets.