Franco Bolelli; Sergio Ramazzotti, GQ 11/2012, 31 ottobre 2012
TOMB RIDERS
L’eccesso di velocità in moto può portare alla tomba. La cosa è certa se si tratta dei clienti del reverendo Paul Sinclair, che vi sfrecciano su due ruote — anzi tre — intorno ai 160 chilometri l’ora. C’è però da dire che loro sono già morti da almeno 24 ore e che a guidare i singolari mezzi con cui giungono al cimitero sono piloti professionisti. Il reverendo Sinclair, di Birmingham, offre infatti un servizio unico al mondo e il cui nome sintetizza con lapidaria efficacia la mission aziendale: Motorcycle Funerals. In due parole, carri funebri ricavati dall’assemblaggio di una moto di grossa cilindrata e di un elegante sidecar, di forma e dimensioni adatte ad accogliere un feretro e che garantisce – è lo slogan della compagnia — a dignified final ride. Ovvero: di lasciare questo mondo con eleganza.
Gli inglesi, in fatto di stile funebre, hanno in realtà un concetto diverso dal nostro. Per esempio, forse a noi non piacerebbe se alle esequie del nostro caro estinto qualcuno si presentasse vestito come un cacciatore di vampiri dell’800, con una collana di denti di facocero o una corona di fiori a forma di dentiera, perché — è accaduto — «il nonno si lamentava sempre del mal di denti». Non sorprende dunque che in patria l’idea di Sinclair sia piaciuta parecchio, tanto che lo scorso anno, il decimo della Motorcycle Funerals, le sue motofunebri hanno accompagnato nell’ultimo viaggio 365 persone in tutto il Regno Unito, e gli uffici hanno registrato anche qualche prenotazione anticipata.
L’idea venne a Sinclair nel 2001, direttamente “dall’alto”. All’epoca il reverendo di origine scozzese – ex ateo, ex operaio metalmeccanico, ex stuntman motociclista con la passione per i record di velocità (che gli è valsa parecchie ossa rotte e il soprannome di The World’s Fastest Pastor) — era il parroco di una chiesa pentecostale in un sobborgo di Londra, dove si era fatto una certa fama per il suo lavoro di recupero dei giovani disadattati e per gli slogan sui cartelloni appesi all’esterno della chiesa, allo scopo di attirarvi i fedeli (uno per tutti: «Sermoni in soli 35 minuti, o avrete i soldi indietro»). Un giorno, i genitori di un ragazzo vittima di un incidente gli chiesero di officiare la cerimonia funebre ai piedi dell’albero contro cui il figlio aveva trovato la morte. «Sulle prime non volevo accettare, mi sembrava una forzatura», ricorda Sinclair, «ma quando fummo attorno al tronco sbucciato di fresco dall’impatto, feci la mia predica e vidi i genitori che camminavano sul prato dove erano rimasti i frammenti della moto, mi resi conto che quel momento era splendidamente pastorale. E pensai che Dio mi stava rivelando un modo nuovo di portare conforto a un funerale».
Qualche giorno più tardi, il caso (o il disegno divino) volle che il reverendo vedesse sul giornale la foto di un eccentrico australiano che aveva modificato il sidecar della propria moto per farne un carro funebre: a quel punto Sinclair, grazie anche alle competenze da saldatore, aveva già in mente il suo progetto. Prima realizzò l’officina, poi la prima motofunebre, quindi si occupò della certificazione di idoneità del mezzo, del business plan, della campagna pubblicitaria e, dopo poco, del primo funerale.
«La moto non è una stravaganza gratuita o un’irriverenza», dice il reverendo, «ma un mezzo che permette un’incredibile intimità col defunto. Con un carro funebre tradizionale si crea una barriera, e inoltre non è possibile che uno dei parenti faccia l’ultimo viaggio insieme alla salma: con la moto sì, e la gente lo apprezza moltissimo».
Dopotutto, se, come sosteneva Seneca, la morte non è una punizione, ma una legge, tanto vale infrangerla col vento in faccia e senza casco, giacché il codice della strada britannico non lo impone a chi è a bordo di un carro funebre.
Oggi Sinclair, da tempo trasferitosi nei pressi di Birmingham, opera con una flotta di sette motofunebri («sette come i peccati capitali»): dalla Triumph vecchio stile alla Suzuki Hayabusa, con cui lo scorso marzo ha stabilito il singolare record dei 189 km all’ora. La tipologia di clienti è eterogenea. C’è un membro degli Hells Angels ucciso in una rissa fra bande rivali, il cui catafalco giunge al camposanto a rotta di collo, in spregio a tutti i limiti di velocità («Chi avrebbe il coraggio di multare un carro funebre?»). Ma c’è anche l’ottuagenario spirato placidamente nel suo letto, la cui vedova pretende di accompagnarlo alla tomba seduta sul sedile posteriore della moto.
«Una volta stavo andando verso il cimitero sui cento all’ora», racconta Sinclair. «La vedova, dietro di me, mi urlò: “Figliolo, vedi se ti riesce di accelerare, quando ero in moto con mio marito non andavamo mica così piano”. La signora aveva 94 anni».
Con l’espansione è arrivato il problema comune a tutte le aziende: trovare le risorse umane adeguate, nella fattispecie i piloti per le sette motofunebri. «Devono essere motociclisti provetti, gente che sulle due ruote sa il fatto suo, ma anche — e già è una contraddizione in termini – puntuali e affidabili. Devono essere inoltre persone sensibili, capaci di comportarsi decentemente a un funerale, e questo è un vero miracolo», riconosce Sinclair. «Negli anni ho avuto tante delusioni: sono un reverendo e dovrei riuscire a vedere sempre il lato buono delle persone, ma alcune mi hanno davvero fatto incazzate».
Il reverendo ha senso dell’umorismo, ma prende sul serio il suo mestiere ed è un perfezionista: gli standard prevedono che la moto sia tirata a lucido e che il pilota si presenti con la barba rasata di fresco, il nodo della cravatta a posto e gli stivali spazzolati all’ultimo istante. Nulla angoscia Sinclair quanto la possibilità che durante un funerale le cose vadano storte. Come quella volta in cui — c’era lui alla guida – la motofunebre fu tamponata dalla limousine con a bordo i genitori del defunto. «Un mezzo disastro: il direttore di cerimonia, che era seduto dietro di me, cadde dalla moto, il sidecar ne uscì semidistrutto e ci mancò poco che la bara rotolasse in mezzo alla strada. Ci ricomponemmo e continuammo così fino al cimitero, e furono i chilometri più lunghi della mia vita: l’incidente non era avvenuto per colpa mia, ma avrei voluto morire lo stesso per la vergogna. Dopo la sepoltura, vidi il padre del defunto avanzare verso di me. Credevo che volesse prendermi a sberle, invece mi strinse la mano e mi ringraziò: “Mi è piaciuto, è stata una bella cosa movimentata”. Allora mi scappò una battuta: “Probabilmente suo figlio è l’unica persona al mondo ad aver avuto un incidente di moto dopo essere morto”. Poteva essere una catastrofe, è finito tutto in una risata».
Certi episodi della Motorcycle Funerals sembrano scritti per un serial (possibile titolo: Storie dell’altro mondo) perfino troppo cinematografici per sembrare veri. Come quello in cui Trevor Wilkinson, uno dei piloti, viene avvicinato da uno sconosciuto nel parcheggio di un’area di servizio lungo l’autostrada. Trevor sta portando la motofunebre a nord per un funerale, e si è concesso una pausa. Lo sconosciuto, incuriosito, gli chiede a cosa diavolo serva quell’ordigno semovente che pare uscito dal garage di Batman. «Capita spesso», spiega Wilkinson, «ma quel giorno ci scambiammo anche i biglietti da visita e l’uomo disse che, quando fosse morto, avrebbe voluto andarsene proprio così. Be’, che Dio mi fulmini se tre mesi dopo non vengo chiamato a guidare a un funerale, e scopro che il defunto è proprio lui». In tutta sincerità, a un certo punto anche chi scrive ha pensato che non gli sarebbe dispiaciuto avvalersi dei servizi di Sinclair, ma si è trattenuto dall’esprimerlo ad alta voce.