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 2012  ottobre 31 Mercoledì calendario

LA SVOLTA

[Franco Bolelli; Sergio Ramazzotti]

IO, PAPÀ A 23 ANNI: PECCATO FARLO UNA SOLA VOLTA–

Mettici che si tratta di una performance che va in scena ventiquattro ore al giorno di ogni giorno da qui in poi. Mettici le notti insonni e le mani non metaforicamente nella cacca. Poi Cenerentola e Il libro della giungla minimo tre volte al giorno (pregando il cielo che non ti tocchino i Teletubbies). Niente più happy hour, rare partite a calcetto. Mettici che ti ritroverai a dover rispondere ai più improbabili «e perché?». Tutti i giorni o quasi portarlo/a a basket, nuoto, danza. Rimetterti in gioco con i congiuntivi, le tabelline, e poi Omero e le versioni di latino. Spiegargli/le perché tu su Facebook ci puoi stare e lui/lei forse anche ma non così tanto (e la stessa cosa - ancora più intricata da spiegare - varrà poi per il sesso...). E così via, fino a... fino a sempre perché — ho una notizia da darti — in un modo o nell’altro, attraverso mille forme e situazioni, questa cosa definitivo dei “per sempre”.
Ecco, la questione non è se tutto questo lo hai messo in conto, ovvio che sì. La vera questione è se tutto questo lo consideri un necessario sacrificio o invece un impareggiabile divertimento, per il quale i sacrifici che fai neanche ti viene in mente di chiamarli sacrifici. Perché un bambino/a non puoi non viverlo come la più grande delle opportunità, l’avventura più eccitante, l’impresa assoluta (un maschile senza senso dell’impresa è la mortificazione del maschile). Se un bambino lo fai per corrispondere alle regole sociali o alle aspettative familiari, per colmare una mancanza, perché “lo hanno sempre fatto tutti”, allora personalmente consiglierei di lasciar perdere. Peggio dei quarantenni ancora lì a lagnarsi di quanto i genitori sono stati anaffettivi e/o soffocanti, ci sono soltanto i genitori che sono stati anaffettivi e/ o soffocanti. Perché posso capire — non giustificare — anche i peggiori comportamenti: ma quelli verso un figlio no, qui sono inammissibili e imperdonabili. Quei padri che finiscono per rinfacciare ai figli quello che hanno speso per loro da quando sono nati, o altra roba così, permettetemi di considerarli il punto più basso e spregevole del genere umano.
Devo ammetterlo, per me non è stata una scelta così difficile: quando è nato mio figlio avevo ventitré anni, straboccante energia fisica e pochissime strutture e abitudini da difendere. Così non c’erano ostacoli al diamante che mi ha colpito nel mezzo della fronte rivelandomi che questa sarebbe stata la mia missione: il mio Graal, il mio Superbowl, la mia conquista della luna, ma molto più gioiosa. No, mettere il proprio figlio al centro di tutto non significa affatto sublimarsi in lui, anzi è il modo più evolutivo per affermare te stesso, se è vero che l’evoluzione è proprio così, è nutrire qualcuno perché ti superi. A vedermi così incondizionatamente dedicato a lui, come rarissimi padri facevano, qualcuna mi disse che stavo tirando fuori il mio lato femminile. Ora, sarà che adorando il femminile mi ritrovo perfettamente nei panni maschili, la verità è che io semplicemente mi sentivo di non voler essere come i padri che vedevo quando sono cresciuto, tanto autorevoli quanto assenti, oppure assenti e basta. La mia sfida era semmai mostrare che il maschile poteva essere molto meglio di così, di quel modello tremendamente triste e limitato (anche nella sua relazione con il femminile). È così che, per stare con mio figlio ventiquattro ore al giorno, ho scelto allora — senza potermelo permettere — di non avere un impiego, un lavoro stabile, e di fare il free lance, il ronin, il cavaliere libero e selvaggio. Attenzione, non è che così ho rinunciato alla mia realizzazione: se ho scritto un mucchio di libri e altre cose simili, è grazie a quella scelta e alla visione del mondo che è sgorgata dalla relazione con mio figlio. Ho soltanto rinunciato a una carriera in una di quelle professioni dove alla fine il tuo ruolo vince su di te. In compenso, mi sono ritrovato per anni unico maschio ai giardini, in mezzo a una molto attraente popolazione di mamme e babysitter. Ho con lui visto, rivisto e ririvisto gli stessi film al cinema (era un’epoca pre-dvd) passando dai formativi Disney a Bruce Lee e Conan il barbaro. E ho passato trecento giorni all’anno di svariati anni sui playground di basket a fare il playmaker che innescava l’infallibile tiro da fuori di mio figlio. Chiaro che per tutte queste cose è necessaria una certa vocazione per il divertimento: vedo spesso padri - e madri - animati dalle migliori intenzioni, ma palesemente poco portati per il gioco, e mica si può fargliene una colpa. Ma ancora di più ha contato un’attitudine refrattaria a sistemi educativi e modellata piuttosto su un unico comandamento: dagli tutto quello che hai, e poi stiamo a vedere e andiamo a giocarcela.
Con tutto questo, non verrei mai a dirti fai come ho fatto io. Tanto più che — al di là degli errori che comunque ho commesso — io stesso in altre condizioni ci sta che mi sarei orientato diversamente. Per dirne una, avessi incontrato prima quella che adesso è mia moglie, forse di bambini ne avremmo fatti quattro, ed è evidente che quattro unici uno sono diversi da un unico uno, e che con una femmina non si fa come con un maschio, e del resto neanche un maschio è uguale a un altro maschio. Ogni bambino fa storia a sé, anzi ogni bambino è un pianeta a sé. Quello che — uno o quattro, passato o futuro, femmina o maschio – non cambia è che con un bambino scordati che bastino i princìpi astratti — neanche i migliori – e le buone intenzioni e le dichiarazioni d’amore: con un bambino (anche con una fidanzata o moglie, se è per questo) servono mille quotidiani gesti caldi ed espansivi. Mille sorrisi, contatti fisici, incoraggiamenti, azioni che esprimono e accrescono energia, senso di sé, forza vitale. Se questi mille gesti al giorno ce li hai lì sulla punta delle dita, pronti a scattare, allora tutto il resto – tutti i problemi, i dubbi, le difficoltà – diventano sormontabili: testa alta e sorriso sulle labbra, sei pronto.

Franco Bolelli



IO, A 26, HO SCELTO LA VASECTOMIA E NON MI PENTO–

Ora posso dirlo. Una mattina di molto tempo fa, nel centro di Milano, con la complicità di un chirurgo feci una strage di bambini. Peggio: erano tutti figli miei. Ignoro il numero delle vittime – potrebbero essere state due, tre, cinque – e la ragione e che non fu un omicidio vero e proprio: mi limitai a impedire che potessero nascere. Esclusa la fase preparatoria, l’operazione non durò più di un quarto d’ora. Pochi eventi così repentini sono in grado di cambiare tanto radicalmente un’intera vita: una curva presa troppo veloce, un bacio, la decisione di bere un altro bicchiere. Nel mio caso si trattava di una vasectomia bilaterale, alla quale mi sottoponevo volontariamente e per nessun’altra ragione oltre a quelle che mi dettava la testa. Dal tavolo operatorio, con la sadica lucidità che mi era permessa dall’anestesia locale, seguii ogni fase dell’intervento: due veloci incisioni, l’armeggiare delle mani guantate, le pinze che sollevavano davanti ai miei occhi i due tratti recisi dei dotti deferenti destinati a continuare la mia stirpe sulla terra, il chirurgo che li gettava in un bidone dicendo «via uno» e «via l’altro!», i punti di sutura. Un quarto d’ora, e mi ero precluso la possibilità di innestare un altro ramo sul mio albero genealogico, di provare quello che tutti i genitori chiamano «un brivido impossibile da capire finché non ci sei dentro», di estendere, come scrisse qualcuno, la crescita del mio organismo oltre l’individuo. L’anno era il 1991. Nel tempo, confessando ad amici e conoscenti (mai ai genitori: ne sarebbero morti) l’insana scelta compiuta, ho dovuto fronteggiare l’intensità di occhi increduli che mi fissavano con quel misto di stupore e di diffidenza che si riserva ai pazzi, incassare spallucce di compatimento accompagnate dal mantra «non sai cosa ti perdi» e sostenere, dal basso della mia indegnità, comparativi mitologici — più insensibile di Abramo, più bieco di Fedra, più crudele di Erode e di altri celebri infanticidi – e accuse di ogni genere: egoismo, empietà, smania di carriera, viltà, fino al disdegno dell’amor patrio, che mai come oggi necessita dell’impero riproduttivo autarchico per far fronte all’orda di immigrati musulmani che, come si sente dire nei bar, se andiamo avanti così finiranno per imporci il ramadan e la preghiera del venerdì.
Per difendermi mi veniva utile Talete, il quale, quando gli chiesero perché non volesse avere figli, rispose: «Per l’amore che porto loro». So bene che cercavo di nascondermi dietro un dito, ma era pur sempre il dito di Talete. E chi ero io per mettere in discussione Talete? O Flaubert, che aveva detto: «L’idea di dare la vita a qualcuno mi fa orrore»? O Rubén Darío con i suoi versi immortali: «Sogna, figlio mio, e quando sarai grande/perdonami il fatale dono della vita tua/che per te avrei voluto d’azzurro e fresche rose»?
Per quanto mi riguarda, le ragioni sono ben più prosaiche: bastò un preoccupante ritardo del ciclo mestruale della mia compagna di allora per visualizzare con orrore la figura di uno scellerato ventiseienne che reggeva fra le braccia un bebé che non aveva voluto e non amava e forse, come nei matrimoni combinati, non sarebbe mai stato capace di amare, e lo malediceva mentre era costretto a cullarlo nell’impacciato tentativo di placare i suoi strepiti. Fu come guardare il film della propria vita che scorre davanti ai nostri occhi a spaventosa velocità nell’attimo che precede la morte: con la differenza che, condensato in quell’istante, non avevo visto il mio passato, bensì il mio cupo futuro di padre ansioso, di placido nonno e, Dio non volesse, di incartapecorito bisnonno circondato dall’amorevole famiglia mentre soffia (sbavando) sulle candeline della torta dei cent’anni. Il giorno dopo avevo fissato un appuntamento per la sterilizzazione volontaria.
Lei non fece una piega, anche se infine si scoprì che non c’era alcuna gravidanza in agguato. Sospetto che il suo terrore riguardo al futuro non fosse inferiore al mio. L’anno successivo ci sposammo. Sette anni dopo divorziammo. Talvolta mi sorprendo a pensare che, se avessimo avuto un figlio, saremmo ancora infelicemente coniugati: per non traumatizzarlo, si capisce.
Spesso mi chiedono se non mi sento sminuito, incompleto, psicologicamente castrato dall’impedimento di provare quel «brivido impossibile da capire finché non ci sei dentro». La risposta è no. Di quando in quando ho l’opportunità di soddisfare quelle briciole di amore paterno represso in compagnia dei nipoti, o dei figli dei miei amici: li ho visti nascere, li ho tenuti fra le braccia, in una certa misura ho condiviso le angosce e le gioie dei loro genitori, e adesso che qualcuno di essi mi chiama zio, non mi dispiace farci una partita con l’ultima diavoleria elettronica che hanno avuto in dono. Le loro madri dicono che ci so fare, e perché diavolo non ho messo al mondo un figlio anch’io, sarei un padre meraviglioso eccetera. Di solito quello è il momento in cui la piccola peste, annnoiata dai nostri discorsi da adulti, comincia a piangere e a fare i capricci.
Allora mi congedo, ripensando con sottile piacere al momento in cui il chirurgo disse «via uno» e via l’altro!». Penso anche, in quelle occasioni, a quanto mi sono risparmiato e, soprattutto, a quanto ho risparmiato alla mia immaginaria prole: le penose notti passate in piedi ad aspettare che il sangue del mio sangue rientrasse dalla discoteca, la dura necessità – imprescindibile, a quanto dicono – di mandarlo a scuola griffato da capo a piedi per non farne un complessato, l’inevitabile proiezione su quell’innocente virgulto delle mie ambizioni frustrate e il conseguente onere, scaricato sulle sue fragili spalle, di conquistare a mio nome tutte quelle aspre vette che non ero stato in grado di scalare da solo. L’unico punto vulnerabile nel corpo di Achille, è risaputo, fu quello per cui l’aveva sorretto sua madre. Come Flaubert, non sono sicuro che dare la vita sia una perfidia meno spregevole che toglierla.
Chiamatelo egoismo, opportunismo, pusillanimità o come più vi piace. Tu invece, figlio mio, ovunque ti trovi, ringraziami.

Sergio Ramazzotti