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 2012  ottobre 31 Mercoledì calendario

GLI EQUIVOCI DELLA TAVOLA A CHILOMETRI ZERO


All’ora dei pasti la nostra coscienza sussulta, facendoci perdere l’appetito. Si susseguono documenti e convegni che analizzano ogni nostro comportamento alimentare da talmente tanti punti di vista da lasciarci poca speranza di sederci a tavola senza sentirci dei vermi insensibili ai temi ecologici, sanitari o di sviluppo economico. Se ci mettiamo alla ricerca di un cibo sano, ambientalmente sostenibile, legato alle tradizioni e culture locali, sufficiente per tutti, solidale e adeguatamente remunerato, finiremo per paralizzarci di fronte a una qualunque pietanza, o decideremo di ignorare tutti i consigli.

Da anni si parla di «chilometro zero» come se questa fosse la quadratura del cerchio. In realtà, fatte salve poche produzioni tipiche che vanno tutelate, il chilometro zero è una visione autarchica, che mira a costruire dei mercati chiusi, in cui le aziende non fanno innovazione e i consumatori sono messi sotto tutela. Un esempio clamoroso di questa miscela di ipocrisia e paternalismo - spiegherò il 3 novembre al Festival della Scienza di Genova - è che quasi tutto il latte, formaggi, carni, salumi e prosciutti che mangiamo da 16 anni deriva da vacche e maiali nutriti con quantitativi di soia Ogm che vanno ben oltre il 50% della razione giornaliera di soia. Parliamo anche dei più prestigiosi marchi Doc ed Igp che, costretti nella camicia di forza dei loro disciplinari di produzione, non riescono più a migliorare il prodotto e a incrementare le esportazioni e guardano con terrore al restringersi del mercato interno, come un ippopotamo guarda all’ultima pozza fangosa. Essendo inoltre coscienti di tacere al loro consumatore affezionato il fatto che le ultime sette generazioni di vacche hanno visto quasi solo mangimi Ogm. L’etichetta che indichi se il prodotto è derivato da mangime Ogm non è dovuta e il settore agroalimentare gioca alla congiura del silenzio. Così i nostri prodotti più tipici usano soia e ora anche mais Ogm cresciuti in Sud America e noi, acquistandoli, sosteniamo la loro filiera produttiva a danno dei nostri agricoltori, che non possono coltivare le stesse piante che fanno la base dei nostri mangimi.

Vi sembra una filiera ecosostenibile quella guidata da disciplinari che consentono l’uso di mangimi proteici distanti sette fusi orari per mescolarli a foraggi (ossia paglia) di una specifica area geografica italiana? Siamo sicuri che solo quei foraggi fanno grande quel formaggio, ovvero che non dipende dalla cultura e dalle tecnologie di trasformazione? Stiamo parlando di aree della Pianura Padana che, quest’anno come nel 2003, hanno visto una lunga estate torrida. Le coltivazioni che non sono state irrigate hanno dato rese pessime e qualità così scarsa che nei prossimi mesi sentiremo parlare delle conseguenze della cattiva qualità dei nostri mangimi. Ma anche irrigare non è sempre la panacea di tutti i mali. Un articolo su «Nature Geoscience» ipotizza che un terremoto in Spagna nel 2011 sia stato causato dall’eccessivo drenaggio di acqua dalla falda. Oggi, quindi, entra con prepotenza nello scenario della filiera ecosostenibile un parametro a cui le aziende faticano a conformarsi: il «water footprint». Parliamo dell’impronta idrica di ogni coltivazione e di ogni alimento. Questa impronta dipende dalla storia di quell’alimento: ha usato irrigazione o acqua piovana? E’ stato prodotto nel luogo adatto o le tradizioni dei padri ci costringono a fare lo stesso, come se in 50 anni nulla fosse cambiato nel nostro Paese, nelle nostre campagne, nei mercati e tra i consumatori? È stato calcolato che un agnello allevato in Nuova Zelanda ed importato in Europa ha un «carbon footprint», ossia emissioni di anidride carbonica, quattro volte inferiori a quello di un agnello allevato in Europa continentale con mangimi americani e stalle riscaldate.

Il termine «ecologico» è ormai abusato, e la desinenza «logico» è troppo granitica. Un dibattito che miri ad atteggiamenti eco-ragionevoli potrebbe consentirci di ritrovare la serenità di apprezzare i profumi della tavola.