Giuliano Foschini, la Repubblica 31/10/2012, 31 ottobre 2012
ECCO L’EMIGRANTE FARINA DAGLI IMBROGLI AI BAMBINI “CON VOI SONO FELICE”
I terzini corrono. E infatti è la storia di una fuga. Non sulla fascia, però. Ma da una vita, da un’etichetta. «Io — confida agli amici — non voglio passare il resto della mia vita a giustificarmi, a vivere con l’etichetta dell’infame ». Simone Farina non è più un terzino. Eppure fugge, pur non essendo né un delinquente e nemmeno un pentito. Banalmente è un cittadino: uno a cui hanno offerto di compiere un reato e lui ha risposto no grazie, e poi lo ha denunciato. Simone Farina doveva essere un simbolo del calcio italiano, in parte lo è stato con Prandelli che lo chiama in nazionale e Blatter che lo invita alla premiazione del Pallone d’oro, doveva diventare un logo, una bandiera da esporre ogni domenica, l’uomo, unico e solo, che aveva denunciato il calcioscommesse. Il buono contro i cattivi.
Doveva diventare una fiction. E
invece Simone Farina è diventato il personaggio di un film di Paolo Sorrentino, sembra Toni Servillo con i capelli lunghi biondi, a vivere in una campagna inglese piovosa quando a Roma c’è il sole, emigrante alla ricerca dell’anonimato, calciatore al contrario, allergico ai flash, disturbato dalle interviste, in fuga dai titoli dei giornali. Che è successo? Farina è scappato. Ha denunciato il suo ex compagno Zamparini, ha fatto arrestare 30 persone, inchiodato gli Zingari, scoperchiato una cloaca. E ora è finito nel catalogo dei cervelli in fuga italiani, talento dell’onestà, talento raro nel mondo in cui era capitato. Simone Farina oggi vive qui, Birmingham, Inghilterra. Non gioca più. Insegna calcio e lealtà ai ragazzini. Veste la tuta gloriosa azzurra e bordò dell’Aston Villa, frequenta corsi di inglese intensivi, passa la sua giornata nei tre campetti di allenamento in sintetico del Gordon Cowans park (ve lo ricrodate Gordon Cowans? Centrocampista del Bari), mangia con i bambini qui accanto ai campetti, al The Villa entra solo per le interviste,
mentre lavora prova a spiegare artigianalmente cosa sono le finte “no look” («come si dice finta senza guardare? No look, si fa così») ma soprattutto a rappresentare cose che dovrebbero essere banali e che invece hanno la portata di una rivoluzione. «Facciamo così, diciamo che la mia esperienza mi ha portato ad avere questa opportunità: io prometto — ha detto ai tifosi dell’Aston Villa — che ci metterò tutto me stesso, metterò a disposizione tutto quello che ho a questi ragazzi». Cosa? «Cercherò di insegnargli il rispetto, l’educazione, le cose secondo me più importanti per chi si affaccia nel mondo
professionistico».
Ma perché Farina è scappato? «Ho sofferto molto in questo periodo — dice ancora ai suoi tifosi — E ora la cosa più bella per me è vedere sorridere i ragazzi, quello che mi hanno dato in questi giorni è la cosa più bella, sono spensierati, pensano soltanto a giocare a calcio. Questo mi rende felice e li ringrazio per questo». In realtà, è giusto dirlo, qualcuno in Italia lo aveva cercato. L’associazione dei calciatori lo voleva come rappresentante dei rappresentanti. Damiano Tommasi è suo amico, «ma Simone — dice — ha scelto così». Anche il presidente della Lega di B, Andrea
Abodi, ha lavorato perché lui rimanesse. L’Ascoli lo voleva come calciatore, tanti club erano in fila per accoglierlo come dirigente. Ma lui tentennava, poi è arrivata la Fifa a parlargli dell’Inghilterra. È volato subito, «è un sogno per un calciatore», un sogno strano perché i tassisti con i gagliardetti non ti conoscono, i bambini nei negozi di Constitution Hill al tuo nome
fanno la faccia interrogativa
e persino
gli emigranti italiani che organizzano feste e partite di calcetto si meravigliano (e rammaricano) un po’ di non averti mai visto. «Gli abbiamo anche scritto su Facebook, ma niente» dice Gianpaolo Currò, uno dei ragazzi italiani di Birmingham. In compenso qui al Villa Park anche le segretarie ti chiamano per nome e ti vogliono bene tutti. «Sono felice. So di avere dietro di me l’Interpol, la Fifa e l’Aston Villa. Questo mi riempie di orgoglio». Però?
Paura è una parola che Simone Farina pronuncia a fatica. Ma è come se gliela si legga in faccia. Fa paura essere un rivoluzionario inconsapevole. Un giorno, mentre sei un terzino così così del Gubbio, un giorno viene un vecchio amico che avevi conosciuto ai tempi della Roma, si presenta con una Porsche bianca e ti chiede di vendere una partita della tua squadra. Tu dici no grazie, ne parli con la società, decidi di dirlo alla Federcalcio,
come è normale farlo, anche perché le regole prevedono così. Poi scopri che però quello con la Porsche era amico di mafiosi slavi, aveva contatti con gente con il cognome da camorristi o amici della banda della Magliana e quello che tu hai raccontato viene prima tenuto in un cassetto e poi quando un magistrato, quasi per caso, lo riceve sulla scrivania viene giù tutto. Scopri che tutto è cominciato da te. Perché sei l’unico a pensarla così: tu solo hai parlato. Gli altri sono sempre stati zitti. In fondo lo sanno tutti, in serie A e in nazionale, a fine stagione ci sono partite «meglio due feriti che un morto». A fine stagione capita di baciare le scatole di scarpe con i soldi di una combine e l’anno dopo sei a giocare nelle squadre importanti di A. Capita di finire in galera e due mesi dopo esultare sotto la curva dei tuoi tifosi, osannato. All’improvviso, dopo aver denunciato quello con la Porsche bianca, scopri di essere un marziano. E allora la pioggia di Birmingham non è poi così male. Almeno l’estate si sta freschi.