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 2012  ottobre 31 Mercoledì calendario

DALLA FLAVIA ALLA THEMA “USA” LA PARABOLA DI UN MITO ITALIANO


La Lancia va a morire. «C’era da aspettarselo, e forse è meglio così», dice il presidente onorario dei lancisti, Enrico Masala.
Certo fa un po’ effetto vedere il marchio dello scudo su auto d’oltreoceano come la Chrysler 300 C, ribatezzata Thema, o la 200 C che oggi in Europa si chiama Flavia. Flavia, Flaminia e Fulvia erano stati i tre modelli della rinascita, all’inizio degli anni Sessanta, nella Lancia guidata da Carlo Pesenti, subentrato, a fine ’55, a Gianni Lancia, figlio del fondatore. E’ una bestemmia per tutti e due i gruppi definire la Lancia l’Alfa di Torino. Ma certo tutti e due i marchi hanno avuto negli anni la caratteristica di rivolgersi a un pubblico di élite. Una élite sportiva l’Alfa Romeo, una élite decisamente classica, se non proprio snob, la Lancia. Sommerse dai debiti le due case hanno finito prima o poi per essere assorbite dall’orbita Agnelli.
Alla Lancia era accaduto prima, nel 1969. Era stata la fine di una parabola cominciata all’inizio del secolo. Nel 1906 un collaudatore
Fiat, Vincenzo Lancia, aveva deciso di sfruttare la notorietà acquisita come pilota nelle gare fondando una propria casa automobilistica. Nel
corso dei decenni i modelli Lancia si sono caratterizzati per l’eleganza del design mentre la Fiat si specializzava sulla produzione per il grande pubblico. Il
passaggio di proprietà al gruppo Pesenti era stato il prezzo pagato alla tradizione di famiglia, alla passione per le corse che aveva preso Gianni Lancia fino a convincerlo a iscrivere la casa torinese al campionato di Formula uno e ad assumere un pilota come Ascari. Quella stessa vocazione sportiva che la gestione Fiat aveva provato a rinverdire a partire dagli anni ’70 con la Stratos prima e la Delta poi, regina dei rally per decenni. Ma l’acquisto da parte degli Agnelli aveva dimostrato che a Torino e forse in Italia non c’era spazio per gruppi diversi e concorrenti tra di loro. Nello stesso periodo in cui aveva assorbito la Lancia, il gruppo Agnelli aveva comperato l’Autobianchi e la Ferrari. L’ultimo grande produttore non Fiat, l’Alfa Romeo, sarebbe entrato sotto il controllo di Torino nel 1986.
Con la gestione Marchionne la Lancia era stata riportata all’onor del mondo. Non più marchio di utilitarie come la Y, erede delle piccole dell’Autobianchi, ma simbolo un po’ snob del made in Italy nel mondo. Le campagne pubblicitarie della nuova Musa e della Delta avevano rappresentato l’apice di quel modo
nuovo e antico di interpretare la marca dello scudo. Sulla prima, la «city limousine», trovava posto Carla Bruni, successivamente sostituita da Elisabetta Canalis quando Carlà aveva trovato sistemazione all’Eliseo. La Delta era stata presentata da uno spot con Richard Gere che aveva irritato non poco il governo cinese per via del monastero tibetano in cui era stato ambientato. Glamour e diritti umani, ecco la miscela su cui aveva scelto di puntare Francois Olivier, all’epoca numero uno del marchio.
Tutto questo sforzo, pare di capire dalle parole di Marchionne ieri agli analisti finanziari, non sembra aver dato i frutti sperati. Al punto che l’unico modello che l’ad oggi salverebbe è proprio la Lancia Y, l’utilitaria, una sorta di lato B nella storia della casa fondata 106 anni fa da Vincenzo Lancia. Una specie di scherzo del destino. Al di là degli amarcord dei lancisti, è un fatto che se il marchio verrà eliminato si perderà una delle specificità nella storia dell’auto italiana. Masala sostiene un po’ sconfortato che «è meglio chiudere quella storia piuttosto che lasciarla sopravvivere con uno scudetto appiccicato su modelli d’oltreoceano». L’antico marchio torinese ha finito paradossalmente per pagare le conseguenze di una delle clausole del contratto firmato nel 2009 tra Torino e Detroit per l’alleanza con Chrysler: la scelta di sostituire nell’Europa non anglosassone il marchio americano con quello dello scudo. Il paradosso è che in questo modo la Lancia ha finito per essere cannibalizzata dal socio americano.