Giampiero Mughini, Libero 30/10/2012, 30 ottobre 2012
I 40 ANNI DI «PLAYBOY»
[Quando le idee camminavano sulle gambe delle conigliette] –
C’è stato un tempo in cui mettevi una ragazza discinta a sfolgorare sulla copertina a rotocalco di un giornale che compravi in edicola, e tutto del nostro vivere e del nostro immaginare ne veniva cambiato e arroventato. Arroventato in meglio, nel senso di più libertà e più intelligenza e più fantasia erotica messe a disposizione di tanti.
È una gran bella data quella del novembre 1972, giusto quarant’anni fa, quando nelle edicole apparve il primo numero del Playboy italiano, il mensile che ricalcava il titolo e i contenuti di uno dei giornali che hanno trasmutato la storia del mondo, il Playboy fondato a Chicago nel 1953 dall’americano Hugh Hefner. Uno che in quel momento aveva 600 dollari in tasca e ci provò a inventarsi una cosa che non esisteva e ci riuscì. Una filosofia e un’idea del vivere ancor più che un giornale. L’apologia delle belle ragazze discinte, ma non solo quella. Piuttosto la libertà di ognuno dire quanto erano belle e desiderabili quelle ragazze apparentemente spudorate, e com’era migliore la vita di noi tutti senza veti e recinti opposti all’immaginazione, e l’ammettere lealmente che era un gran cosa bere un buon whisky a fine serata o comprare una camicia cheti piaceva e che volevi esibire con amici e amiche, o ascoltare la tua musica preferita su un impianto stereo di qualità. Era un gran cazzotto in faccia all’idea che la vita dovesse essere rinuncia e sofferenza e che il bel vivere fosse robaccia di cui vergognarsi o da nascondere a tutti i costi.
È appena uscito in Italia un libro in cui due scrittori italiani, il siciliano Leonardo Sciascia e il calabrese Mario La Cava, per trent’anni (dalla fine dei Cinquanta alla fine degli Ottanta, quando morirono uno dopo l’altro a distanza di un anno) si scambiano lettere intense e amicali in cui ci fanno capire che cos’era l’Italia di mezzo secolo fa. Il calabrese La Cava scrive a Sciascia che nel suo paese i partiti della sinistra avevano raccomandato di non andare ai funerali dei ricchi. Se erano ricchi, vuol dire che erano malvagi e zozzi, che non meritavano commozione e pietà. Solo i poveri meritavano commozione e pietà, alla luce di quel bigottismo feroce e spietato. Questa era l’Italia ma fors’anche una buona parte del mondo di quando Hefner scaraventa nelle edicole dell’Occidente il primo numero del suo Playboy americano, e divenne leggendario il numero di un anno successivo in cui una giovane attrice americana di nome Marilyn Monroe si torceva nuda sotto gli scatti di un fotografo che era salito su una scala per centrarla e immortalarla dall’alto. Foto che a Marilyn verranno pagate 50 dollari e che diventeranno icone del Novecento.
Il Playboy italiano nacque vent’anni dopo, nel novembre 1972, il ritardo medio che la cultura italiana aveva sulla trionfante cultura americana del secondo dopoguerra, quando la buona parte della pittura e della letteratura e del cinema portava il marchio by America. Il direttore editoriale di quella primissima edizione italiana ne era il mezzo milanese e mezzo romano Oreste del Buono, un intellettuale polivalente e di grande personalità che li fece tutti i saliscendi tra cultura alta e cultura bassa: è stato il direttore per eccellenza del mensile Linus, quello che a partire dai primi anni Sessanta ci ha convinto che i raccontatori a fumetti americani o italiani non erano inferiori ai raccontatori per iscritto della grande letteratura riconosciuta e acclamata. Del Buono lo sapeva d’istinto che le belle ragazze discinte e i bei racconti di Vladimir Nabokov o Italo Calvino non è che si litigassero fra loro, tutt’altro. Lo sapeva e lo ha conclamato per tutta la sua lunga vita di giornalista e editore e romanziere che l’alto e il basso della cultura si stringono forte l’uno all’altro e si trasmettono emozioni e modi della comunicazione. Quel che adesso, nell’era di Internet, è dato per ovvio da tutti: non fosse che il basso della comunicazione ha serrato al collo l’alto,e sono in milioni a venerare la piccantissima Belen Rodriguez e pochissimi a leggere gli scrittori che stanno alla letteratura contemporanea come Nabokov stava alla letteratura degli anni Cinquanta, quando decine e decine di editori avevano detto no al «Lolita» cui lui aveva lavorato così tanto tempo e che alla fine venne accettato solo da un editore francese di libri pornografici.
Quarant’anni da quel primo numero del Playboy italiano, un mensile che per lungo tempo ha corso - affiancato al suo cugino di primo grado, il Playmen fondato nel 1967 a Roma da Adele Tattilo e che arrivò a vendere 450 mila copie a botta - , e poi ha zoppicato e poi si è interrotto. Nel dicembre 2003 e per cinque anni nessunnumero, sino al 2008. Quando ha ricominciato con una nuova veste editoriale, una veste di cui l’attuale direttore Marco Basileo ci dice che avrà adesso un nuovo soprassalto grafico, e per quanto sia difficile in tema di immagini e di comunicazione competere con i clic sul computer o sull’iPad che ti svelano in un istante oceani di parole e suggestioni e viaggi nel mondo e silicone femminile a iosa e Melissa Satta stradiscinta e tutto quel che sapete. Che sapete quanto sia divenuto ovvio e prevedibile, e laddove il Playboy americano del 1953 o quello italiano del 1972 erano una novità e una rivoluzione. Tanto erotica quanto elegante. E ho detto erotica, ma avrei dovuto dire culturale.