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 2012  ottobre 29 Lunedì calendario

Vizi, virtù e pazzie degli scrittori assediati dalla noia - Da anni Giuseppe Sca­raffia affida ad agili li­bretti una sua partico­lare concezione del mondo, dove la moda e la letteratu­ra vanno a braccetto nella loro ap­parente dicotomia e sostanziale unicità

Vizi, virtù e pazzie degli scrittori assediati dalla noia - Da anni Giuseppe Sca­raffia affida ad agili li­bretti una sua partico­lare concezione del mondo, dove la moda e la letteratu­ra vanno a braccetto nella loro ap­parente dicotomia e sostanziale unicità. Diceva Walter Benjamin che la prima era «un balzo di tigre nella storia», il tentativo - codifica­to nei repechages, nei revival, negli omaggi «alla maniera di» - di attua­lizzare il passato e/o eternizzare il presente. Quanto alla seconda, co­me lo stesso Scaraffia nota, «ogni li­bro è un’arca di Noè» che porta in salvo un frammento di ciò che è sta­to per farne un ciò che è... Ambe­due insomma, lavorano per noi contro «l’incessante lavorio di de­molizione del tempo », questo con­te Ugolino che se ne sta accovaccia­to sulle nostre spalle a rosicchiarci il cranio... In I piaceri dei grandi (Sellerio, pagg. 241, euro 13), appena uscito, quel binomio prima ricordato vie­ne ora coniugato in una sessantina di voci, dalla «b» di Buone maniere alla«v»di Valigia,ovvero una caval­cata fra tic, vezzi, passioni, manie praticate da personalità del mon­do dell’arte- poeti, romanzieri, filo­sofi, musicisti, pittori- per dimenti­carsi di sé, un modo di arredarsi una vita altrimenti insopportabile nella sua lugubre corsa verso il nul­la. E proprio «Arredare il vuoto» è la voce che introduce le altre, le orga­nizza e in qualche modo le trascen­de. «Qualsiasi attività è misurabile solo dal punto di vista della sua effi­cacia nel distrarci dal vuoto. Tutti i rimedi, sempre più o meno falli­mentari, sono equidistanti dal cen­tro: l’abisso incolmabile del vuoto. Dal mistico al giocatore d’azzardo, dal guerrigliero al collezionista, tut­ti inseguono la stessa chimera. L’ul­ti­mo mezzo per resistere al peso an­nientante e minaccioso del vuoto è il suicidio che mira a battere sul tempo l’avversario, la versione sa­cra della fretta profana che ci so­spinge in una corsa irrimediabil­mente perduta con il tempo». Solo un supremo snobismo può disto­glierci da questa tentazione: «È dav­vero poco elegante suicidarsi» ha scritto una volta Cioran. In questa corsa a fuggire il tempo ci si può concentrare sulle «buone maniere», perché poi nulla è «più volgare della fretta», come diceva Emerson, oppure sui piaceri peri­colosi perché, a detta di Monther­lant, «tutto quello che non è godi­mento è secondario», e anche nel­l’alcol. «A volte un uomo intelligen­te­è costretto a ubriacarsi per passa­re del tempo con gli imbecilli» so­steneva Hemingway, ed è di Wil­liam Faulkner la convinzione che «la civilizzazione inizia con la distil­lazione ». Per certi versi, il viaggiare è l’attività che nel contemplarle tut­te, lentezza, azzardo, ebbrezza, le sublima. Scriveva Paul Morand che, una volta morto, avrebbe volu­to che della sua pelle si fosse fatta una valigia, a testimonianza di un modo di vivere destinato a soprav­vivere. Oppure ci si può ritrovare nell’aristocratico Ernst Jünger: «Preferisco disegnare una carta ge­og­rafica che fare parte della segna­letica stradale. Io non son una gui­da, sono una mappa». I piaceri dei grandi è, sotto que­sto profilo, una miniera inesauribi­le, colta e mai banale.I modi per«ar­redare il vuoto » possono essere ela­borati, maniacali o effimeri: «Ognu­no ha le proprie ricette e spesso i più dissipati sembrano i più saggi». Per tutto l’Ottocento quella di fare debiti, per esempio, fu un’abitudi­ne elegante quanto diffusa, pratica­ta ancora a inizio Novecento per poi trasformarsi in mestiere e quin­di fatica, come è il caso dei grandi debitori-truffatori della nostra con­temporaneità, dove il debito da mezzo si è trasformato in fine. Pri­ma era ancora un’arte. Balzac ave­va messo a punto una serie di paro­le d’ordine per permettere che, at­traversoisuoidomestici, arrivasse­ro alla sua persona amici e non cre­ditori, de Musset sosteneva che «un gentiluomo senza debiti non potrebbe presentarsi nei salotti», Dumas fu costretto a vendere il suo castello di Montecristo prima di averlo finito... «Fare una vita da rovi­nata richiede molti mezzi » sospira­va Louise de Vilmorin, prima fidan­zata di Antoine de Saint-Exupéry, uno eternamente senza soldi, ma che trovava naturale mandare il suo cameriere russo a fare la spesa in taxi. «Io e il denaro ci siamo stati cordialmente antipatici sin dall’ini­zio »,riassunse Chateaubriand nel­le Memorie d’oltretomba . Scrive Scaraffia che gli specchi del ristorante La Pérouse di Parigi, tempio della Belle Époque, sono ancor oggi «striati dagli innumere­voli graffi che facevano le mantenu­te per verificare che i diamanti ap­pena ricevuti fossero autentici ». La contessa di Castiglione, attraverso le cui gambe passò il Risorgimento, fece velare tutti gli specchi di casa per non dover vedere l’invecchia­mento operato dal tempo sul suo volto e sul suo corpo, e nel ro­manzo Sangue velsungo di Tho­mas Mann lo specchio riflet­te due immagi­ni successive di Sigmund, il pro­tagonista ma­schile. Nella pri­ma, «è ancora un puntiglioso giovanotto che si rade», nella seconda, po­che ore prima che si compia l’incesto con la sorella, «gli oc­chi sono supplichevoli e lucidi, umidi di uno stanco dolore». Per Baudelaire, un dandy avreb­be dovuto vivere e morire davanti a uno specchio. Quando si ammalò, fu proprio lo specchio ad avvisarlo: «Mi sono guardato, non mi sono ri­conosciuto, e ho salutato». Mio pa­dre, poco prima di morire,all’Ospe­dale militare del Celio, me ne diede una versione differente: «Non mi sono riconosciuto, e mi sono pre­sentato ». Senza aver letto Baudelai­re, lo aveva corretto. In meglio.