Massimiliano Parente, il Giornale 28/10/2012, 28 ottobre 2012
Sorpresa: la capitale d’Italia adesso è diventata il bar - Chi è senza bar scagli il primo cornetto, perché in nessun altro paese il bar è esistenzialmente fondamentale come in Italia, altro che spaghetti e pizza, la verità è un’altra: in bar we trust
Sorpresa: la capitale d’Italia adesso è diventata il bar - Chi è senza bar scagli il primo cornetto, perché in nessun altro paese il bar è esistenzialmente fondamentale come in Italia, altro che spaghetti e pizza, la verità è un’altra: in bar we trust . Con molti problemi filosofici annessi, a cominciare appunto dal cornetto, un problema di classe: se vi trovate a Milano non chiedetelo, ordinate una brioche, altrimenti vi prendono subito per terroni. Sebbene Maria Antonietta ordinò di dare al popolo le brioche, non i cornetti, e se volete sapere la nobildonna italosvizzera Laura Zambelli Del Rocino mi informa che invece «in Ticino la differenza è tra gipfel e brioche, ed è la brioche a essere da terroni, mentre se chiedi un cornetto azzeri la distanza tra Nord e Sud, saltando la brioche ». In compenso un’altra mia amica, la bellissima Justine Mattera, mi informa che negli Usa è più semplice, ci sono gli Starbucks, e lì sono tutti pastries, paste. Dove tral’altro hanno quegli splendidi bicchieri di polistirolo da portare in giro che si vedono nei telefilm americani tipo Doctor House, qui se chiedi un cappuccino take-away te lo danno ancora nel bicchierino di plastica con la stagnola. A Roma oltre al cornetto si chiede la bomba, a Napoli la sfogliatella, la frolla, la graffa, il bombolone, e in generale non parliamo dei caffè, anzi parliamone, una sfida alla seconda legge della termodinamica: caffè espresso, ristretto, corto, macchiato freddo, macchiato caldo, americano, schiumato, marocchino, decaffeinato e così via all’infinito, e poi «al vetro», mai capito perché, come se dovessero mangiarsi la tazzina. Idem per il cappuccino: tiepido, con la schiuma, senza schiuma, chiaro, molto chiaro, chiaro ma non troppo, decaffeinato chiaro, decaffeinato tiepido, bello caldo, bello caldo ma non troppo, e tutte le combinazioni: «Un cappuccio decaffeinato ma mi raccomando al vetro e non schiumato, se possibile con latte scremato! ». Per non parlare delle variazioni sulle spruzzatine di cacao e le tipologie di zucchero, a cui si è aggiunta la richiesta di fruttosio dopo la puntata di Report contro i dolcificanti dietetici. Nel frattempo mi sono documentato: in ogni bar italiano si consumano 175 tazzine di caffè al giorno, con un costo medio di 93 centesimi, e il più caro è a Ravenna, 1,08 euro, il più economico è a Reggio Calabria, 76 centesimi. Io senza bar non saprei come vivere, i bar sono il mio ufficio, il mio habitat, il mio acquario, il mio tutto, il mio nulla, perché per scrivere vivo talmente poco che tutta la vita la vivo riflessa nei bar, tutti i miei romanzi li ho scritti nei bar, appartato in un un angolo, tra le 5 e le 9 del mattino, isolandomi con le cuffie dell’iPhone ma tenendole spente, per sentire «i discorsi da bar» come rumore di fondo. È una fortuna che in Italia ci siano centocinquantamila bar, sono una risorsa economica, sarà per questo che lo Stato ti rende impossibile aprirne: devi pagare perfino una tassa comunale di qualche decina di migliaia di euro per l’incremento potenziale del traffico causato dal tuo bar, e prima ancora di iniziare. Comunque, bardipendente come sono, se dovessi spostarmi da Roma andrei in Valle d’Aosta, dove ogni mille abitanti ci sono 4,6 bar, e mai in Sicilia, dove ce n’è solo 1,7. Mi ipnotizzano le statistiche, perché c’è sempre quell’abitante virgola qualcosa a cui immagini diano solo il 0,4 percento di un cappuccino. Nei bar ci sono i giornali, a Milano o Torino o Venezia li trovi ancora appesi alle aste di legno, a Roma solo il Messaggero buttato lì e ormai più neppure quello, leggono i free-press come Leggo , cioè non leggono niente: sorseggiano il cappuccino e sfogliano meccanicamente una pagina dopo l’altra indifferenti a qualsiasi titolo, non ho mai capito cosa potrebbe attirare la loro attenzione, non li smuoverebbero neppure i popup , sono zombi. Invece quelli che vogliono leggere davvero adocchiano te, che sei lì nascosto nell’angolino, e vengono a chiederti se possono dare un’occhiata ai tuoi giornali, col cavolo, per me un giornale toccato è infetto, da buttare e ricomprare nuovo. I bar italiani sono meravigliosi perché ci passa dentro tutta la commedia umana, il bar è il luogo per antonomasia del luogo comune, del piove governo ladro, del menefreghismo, del comizio di quello che la sa più lunga sull’ultimo complotto: nei bar l’uomo non è mai andato sulla luna. Ogni bar inoltre ha i suoi personaggi tipici, nel mio quartiere c’è pure quello che è stato rapito dagli Ufo, proprio così, e ogni mattina non gli chiedo come sta, gli chiedo «Come stanno gli Ufo?» e lui risponde «Bene, bene» e mi racconta dell’ultimo incontro ravvicinato. C’è anche lo scrittore sfigato autostampato che mi saluta con «buongiorno collega» e solo per questo è contento per tutta la giornata. E infine all’alba il gioco mentale sta nel distinguere le facce assonate di chi si è appena alzato e chi torna da una notte di lavoro, impresa impossibile, perché le estremità del sonno si assomigliano troppo. A quell’ora non ci sono ancora i comizianti rumorosi, tenera e la notte e ancor di più la prima mattina, e le più interessanti da origliare sono le prostitute, che dopo aver smontato si mettono a chiacchiera, per raccontarsi i cazzi loro.