Marco Vallora La Stampa 31/10/2012, 31 ottobre 2012
Sollevando gli occhi al cielo immaginario di Sibille almanaccate e di «terribil» profeti, nella Cappella Sistina, o brancicando atterriti sopra il pesto cielo dipinto e piangente, sgomento, fatto di corpi e strazii, del Giudizio Universale, riesce difficile, impossibile, anzi, tentar di percepire e sentir scorrer dentro di sé, come in una miseranda indegna clessidra introiettata, la durata incommensurabile e impressionante di ben 500 anni di fulminante esistenza: 500
Sollevando gli occhi al cielo immaginario di Sibille almanaccate e di «terribil» profeti, nella Cappella Sistina, o brancicando atterriti sopra il pesto cielo dipinto e piangente, sgomento, fatto di corpi e strazii, del Giudizio Universale, riesce difficile, impossibile, anzi, tentar di percepire e sentir scorrer dentro di sé, come in una miseranda indegna clessidra introiettata, la durata incommensurabile e impressionante di ben 500 anni di fulminante esistenza: 500. E non soltanto per la modernità folgorante e rapinosa di quel titanico concepimento «divino» (che mescita insieme, e profonde, pittura, fede, architettura e filosofia), ma proprio per lo sforzo immane di pesare, sopra la tua fragile carne mentale, quel fiume immenso e turbativo di tempo fluito, dipartito, in una vicinissima lontananza accostata. Densissima, per di più, di conseguenze e reazioni. Non manca nemmeno, infatti, chi, a petto del gladiatorio entusiasmo di Delacroix («Non vi faccio che scorgere dettagli sconvolgenti, come ricevere un pugno in faccia (...), opera colossale, che sorge come un mondo, dentro i fasti della pittura»), indossa gli occhialetti pedissequi del correttore d’accademia. Come il poussiniano teorico francese della «perfezione della pittura», Fréart, che starnazza: «Così il nostro maggior articolo di fede è stato sfigurato da questo fanfarone della pittura». Assecondato dalla provocatoria «coda» d’un Picasso in corsa bersagliera alla Vaticana - accanto a Cocteau e Satie, mentre stanno architettando Parade - che scherza: «Mi par di guardare un cartone pubblicitario di Daumier» (ma poi ci ripensa, all’epoca di Guernica ). Per fortuna, però, a parlare e «vedere», miracolosamente, per noi, ci sono ancora i documenti d’epoca, che trasmettono un’elettricità fatta di sgomento, stupore, incanto, rapimento. Non tanto i «biografi» ufficiali di Michelangelo, schiacciati dalla consuetudine complessa, con la sua personalità ombrosa e oppressiva, ma, questa volta in maniera imbattibile, il Vasari. Che come è noto aveva scelto il Buonarroti non soltanto quale stella polare del proprio avanzare (nella edizione del 1565, la Giuntina, morto ormai il maestro, quasi fingendosi suo diretto allievo, quando in realtà Michelangelo non volle nessuno accanto a sé), ma soprattutto proponendolo come il vertice insuperabile, letteralmente invalicabile, della storia dell’arte. Che lui, quale primo «storico» in assoluto, concepiva in progressiva evoluzione: dai rudi balbettamenti di Giotto e del barbaro gotico, sino appunto a quel faro sommo del «Divino Michelagnolo». Che illumina retrospettivamente tutto l’oceano della Pittura, appena raccontata. Curioso, dunque, che un proto-storico come lui non concepisca il futuro, quale apertura (ma appunto, proprio perché Michelangelo è statuito quale vertice assoluto, insuperabile, che stoppa la stessa possibilità di venir superato, insieme a quella sorta d’ombra un poco disturbante che è Raffaello, di qui inizia quel percorso a ritroso di artisti devoti, che dovranno solo copiare, contorcendosi, il Maestro. E che la manualistica ha definito Manieristi). E così, anche il Vasari, sotto la volta della Sistina, lo sorprendiamo, in diretta, magnificamente contorcersi: «E mentre si guardano le fatiche dell’opra sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone». Come cercando d’inforcare il cannocchiale del Futuro, ma vedendosi l’immagine tornare a boomerang, «terribilmente indietro». Già dato, con una immediatezza fulminante: «Non curi più chi è pittore di vedere novità e invenzioni di attitudini, abbigliamenti addosso a figure, nuovi modi d’aria e di terribilità di cose variamente dipinte; perché tutta quella perfezzione che si può dare a cosa che in tal magisterio si faccia, a questa ha dato». Già fatto. Non si provi alcuno a competere (e dire che Vasari è anche pittore e negli stessi frangenti si prova, e riesce, a vestire d’immagini l’immenso chilometraggio di Palazzo Vecchio). Ma anche raccontando la sorpresa di chi riesce a entrare finalmente in quella grotta tenuta sino all’ultima segreta, perfino ai vari Papi che passano, e sono in discreta o riottosa attesa, alle porte del miracolo, come diligenti loggionisti in coda al grande concerto (Michelangelo li bersaglia dall’alto con minacciose tavole dei ponteggi, fingendo di non sapere chi sta entrando, poi si pente, s’inginocchia, si ribella, fugge, si nasconde, si traveste, si barrica in casa, pur di non rivelare il segreto della nuova sua pittura cerebrale, che teme gli venga trafugato dai rivali, Raffaello in primis), Vasari non dimentica mai di evocare lo choc, lo stordimento, quasi l’impaurimento di fronte a quella novità terribile (torna ossessiva questa parola). Quasi un girar di testa, un turbine. Benissimo evocato da quella sua telecamera stilistica, che zooma, s’infiltra, lecca letteralmente la pittura: «Volando si vede in quella volta una figura che dove tu cammini per la cappella, continuo gira e si voltan per ogni verso».