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 2012  ottobre 29 Lunedì calendario

FIAT. IL PIANO AMERICANO DI MARCHIONNE

Una sola strada: l’export. Non certo in Europa, almeno non quella occidentale. E la direzione è del resto dichiarata: America. Non è solo l’unica via: per le fabbriche italiane dell’auto Fiat è, probabilmente, anche l’ultima chance. Il mercato continentale è in crisi nera, e ci resterà per buona parte del 2013. Quello nazionale è messo ancora peggio. Nell’uno e nell’altro caso, nessuno nel settore prevede un ritorno ai livelli pre-recessione prima del 2016, 2017 addirittura 2018. Dunque davvero non c’è alternativa: i cinque stabilimenti che il Lingotto ha nella penisola possono sopravvivere tutti insieme solo tornando all’utile e solo se, di fronte a una sovracapacità che supera ormai abbondantemente il 40%, saranno abbastanza competitivi da poter produrre per Usa e Canada. In caso contrario, dalla mappa che oggi comprende Mirafiori, Grugliasco, Pomigliano, Melfi e Cassino qualcosa sparirà. Forse una sola fabbrica. Forse due. Filo conduttore è l’analisi-scenario che Sergio Marchionne ha del resto più volte disegnato. È quella, l’embrione di ogni piano in via di sviluppo. Sarà dunque quella, presumibilmente, a fare da filo conduttore all’incontro di domani a Torino. Dove, subito dopo il consiglio convocato per la trimestrale (e saranno di nuovo Usa e Brasile a consentire il raddoppio dei profitti netti nonostante le perdite europee), il leader di Fiat-Chrysler vedrà i segretari di Cisl, Uil, Fismic, Ugl. Loro, i sindacati che con il Lingotto hanno condiviso il modello contrattuale di gruppo, sanno di avere un «credito di fiducia». Sono però anche consapevoli di non potersi aspettare più di tanto. C’è ancora troppa nebbia, nella notte del mercato italiano ed europeo, per poter presentare progetti industriali dettagliati (a meno che, vedi Ford o Psa, non si voglia passare subito all’accetta). Da noi, poi, al di là del modo in cui la Fiat deciderà di applicare la sentenza che obbliga la «nuova Pomigliano» ad assumere 145 iscritti Fiom, rimane l’incognita sulle possibili ricadute di quel verdetto. A torto o a ragione, non ha di sicuro alimentato in Marchionne la già scarsa «voglia di restare» nel Paese. Diciamo comunque pure che ci passerà sopra o, meglio, si limiterà ad attrezzarsi per gli ennesimi, preannunciati capitoli della guerra con i metalmeccanici Cgil. Anche così, e al netto delle sorprese che il manager spesso riserva, il massimo che Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, Roberto Di Maulo ragionevolmente si attendono è lo «scongelamento» degli investimenti prima avviati e poi bloccati a Mirafiori. Con il che si torna al punto di partenza, alla cornice di ogni possibile piano di sviluppo dopo i 900 milioni destinati a Pomigliano (arenata oggi nella crisi e nella cassa integrazione) e il miliardo speso a Grugliasco per la «piccola Maserati» (inaugurazione intorno a dicembre). Non c’è possibilità di assorbimento, in Italia e in Europa, per le potenzialità produttive della fabbrica simbolo del Lingotto. E infatti la mission che Marchionne le ha (le aveva?) assegnato è anche la famosa, dichiarata ultima chance: se quelli che lì si dovrebbero costruire sono due mini Suv, uno Fiat e l’altro Jeep, è perché quelli sono gli unici modelli che possano essere venduti sia nel Vecchio sia nel Nuovo Continente. Il problema sono le condizioni. Il grado effettivo di competitività della fabbrica e, soprattutto, del Paese in cui la fabbrica opera. I costi del lavoro, dell’energia, della burocrazia (i più alti tra le nazioni industrializzate, figurarsi il confronto con le emergenti). Non a caso, nell’ultimo incontro con il governo, questo è stato l’unico «aiuto» richiesto: agevolazioni all’export (riguarderebbero poi tutte le imprese). Gli altri Doveva occuparsene un tavolo al ministero dello Sviluppo. Non se n’è più sentito parlare. Ed è un «non fatto» che, probabilmente, aleggerà sulle risposte che Marchionne darà domani ai sindacati. I quali, peraltro, non vivono su Marte. Avranno da chiedere, e hanno titolo per farlo. Conoscono d’altro canto fin troppo bene la piega che sta prendendo la scena europea. Ford che chiude in Belgio e Gran Bretagna. Psa che, per non saltare (e non tagliare in Francia), ottiene ricchi aiuti dal governo. La tedesca Opel che, magari, come Volkswagen denuncerebbe volentieri l’affaire a Bruxelles: ma non può, perché il proprietario Gm è anche socio Psa, e forse nemmeno vuole, perché chissà, pure Angela Merkel potrebbe essere interventista quanto François Hollande (nel 2009 fu lei, con Nicholas Sarkozy, la più generosa). Insomma: il big bang nel continente è cominciato. Ma nell’anarchia, nella totale assenza del supposto arbitro Ue. Esattamente come aveva previsto Marchionne. Che sa perfettamente come l’Italia non possa permettersi nemmeno uno «zero virgola» di quanto è invece possibile per Francia o Germania. Per ora, aspetta. L’ultima chance per Fiat Europe è però sul serio la «via americana». Oltre, resterebbero solo chiusure italiane.
Raffaella Polato