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 2012  ottobre 30 Martedì calendario

LA CULLA DELL’EUROPA SOTTO LE MURA DI TROIA

Nel 417 Claudio Rutilio Namaziano, prefetto di Roma, si imbarca al porto di Ostia per tornare in Provenza, sua terra natale. Sette anni prima (nel 410), Roma è stata presa e saccheggiata dai Goti di Alarico, che da quel momento spadroneggeranno sulle strade consolari. Rutilio Namaziano ha scelto così la via del mare per raggiungere la Gallia, dove va a sincerarsi se i Vandali, che sono transitati di lì per andare a conquistare l’Africa del Nord, hanno devastato e depredato anche le sue proprietà. Case e terreni nei quali Rutilio Namaziano ha in progetto di trasferirsi definitivamente. A quel viaggio, contrassegnato da numerose e lunghe soste, l’ex prefetto dedica un magnifico poema, De Redito Suo (Il ritorno, pubblicato da Einaudi a cura di Alessandro Fo), in cui rimpiange la Roma che fu, elogia con punte di commozione i riti pagani a dispetto di quelli cristiani, esprime ammirazione nei confronti del generale Costanzo, che ha da poco sconfitto i Goti in Iberia. Dalla malinconia dei versi si intuisce che Rutilio Namaziano si fa poche illusioni circa la portata della vittoria di Costanzo, è consapevole che un mondo va scomparendo, e avverte la sensazione di essere alla fine della storia sua e forse anche della civiltà. Ma qui il poeta sbaglia.
Scrivono Simon Price e Peter Thonemann in un libro, assai originale, che sta per essere pubblicato da Laterza, In principio fu Troia. L’Europa nel mondo antico: «Rutilio pensa che sta lasciando il centro (Roma) per tornare a casa nella periferia (la Gallia), ovvero crede ancora di vivere nel mondo antico… In realtà egli si trova sulla soglia di un mondo nuovo, dove le periferie sarebbero diventate centri a pieno diritto e in cui la Gallia, alla fine del V secolo d.C., sarebbe stata molto più florida di Roma». È partito dalla Roma del passato ed è giunto nell’Europa del futuro. Già, ma quando è nata quell’Europa? Qual è la sua storia antica?
L’Europa in qualche modo aveva cominciato a profilarsi come tale nel I secolo d.C., quando, in tutte le province occidentali dalla Spagna alla Britannia, si notò una grande diffusione delle ceramiche aretine, recipienti di terracotta usati per cuocere, conservare e consumare cibi e bevande. Ceramiche che in forma ben più rudimentale e in misura infinitamente minore avevano cominciato a circolare già cinque o sei secoli prima. Nell’Europa nordoccidentale preromana la fonte principale di carboidrati, scrivono Price e Thonemann, era stata fino a quel momento una pappa di cereali inzuppata in una scodella di birra: la comparsa delle ceramiche aretine di cui si è detto segnò il passaggio, almeno per le élite, alla cottura del pane. Quelle stesse élite celtiche iniziarono poi ad assaporare vino importato — anche qui si era iniziato centinaia di anni prima — da Massalia (Marsiglia); mentre le classi più povere ancora bevevano birra di frumento mescolata con il miele o birra d’orzo senza aggiunte. Nel corso di quel primo secolo dell’era cristiana il consumo della birra andò declinando a vantaggio di quello del vino, prodotto per oltre la metà nella regione di Besançon in vigneti gallici.
Il mercato delle ceramiche di tipo romano raggiunse proporzioni tali che nella Gallia meridionale cominciarono a fiorire officine che ne producevano ottime imitazioni a beneficio del mercato locale. La più nota si trovava a La Graufesenque, nei pressi di Millau, regione francese Midi Pirenei: i piatti di La Graufesenque si diffusero non solo nelle province galliche, ma anche in Britannia e persino nell’Africa del Nord. Particolare molto importante è che su ogni singolo prodotto di quel vasellame era apposto un sigillo con il nome del produttore o del destinatario, tradotto dal celtico in latino. I vasai di La Graufesenque volevano apparire romani in tutto e per tutto e a tal fine quegli stessi vasai adottarono, per la loro pregiata opera, la lingua di Roma. A poco a poco gli idiomi locali cedevano il posto al latino (a Occidente) e al greco (a Oriente).
È in questo momento che molte delle varie lingue dell’Asia minore (il licio, il lidio, il galatico, il cario) spariscono dalle iscrizioni su pietra, dai papiri, dalle tavolette scrittorie e dagli stampi di ceramica. Solo nella campagna più sperduta può accadere che, nel III secolo d.C., il frigio resista su qualche pietra tombale, peraltro bilingue; stesso discorso vale per il pisidio. Per il resto niente o quasi niente. Così fa una certa impressione leggere all’interno del Nuovo Testamento, negli Atti degli Apostoli, che a metà del I secolo, quando Paolo e Barnaba arrivarono nella piccola colonia romana di Listra, la popolazione locale li salutò «in licaonico». «Non ci resta neanche una parola della lingua licaonica», osservano Price e Thonemann, «evidentemente sia a La Graufesenque sia a Listra c’era una netta divisione tra le lingue dell’amministrazione e degli affari pubblici (rispettivamente latino e greco) e le lingue che la gente parlava effettivamente nella vita quotidiana (celtico e licaonico)».
Ma torniamo alla storia e alla storia antica (che si confonde con quella mitica). Colpisce il fatto che nella mitologia greca il nostro continente abbia le sue origini fuori dall’attuale Europa, sull’altra sponda del Mediterraneo. Nelle Metamorfosi di Ovidio, Europa è la figlia di Agenore, re di Tiro (Sidone) in Fenicia, una ragazza che, mentre gioca con le sue amiche sulla riva del mare, viene conquistata da Zeus con le sembianze di un toro alato, ne è rapita e lo segue sulla sua groppa a Creta. Qui Zeus riprende il suo aspetto e si congiunge a lei generando Minosse, fondatore della civiltà che da lui prende il nome. Ma a ribadire la circostanza delle origini africane c’è che Agenore di Tiro mandò un altro suo figlio, Cadmo, a cercare la sorella Europa: fu nel corso di questo viaggio alla ricerca della sorella che il fenicio Cadmo si fermò in Beozia e fondò Tebe, dando origine a una dinastia che avrebbe regnato fin dopo la guerra di Troia. Va notato che «Europa, Cadmo e Agenore furono figure puramente greche, senza alcun ruolo nella mitologia fenicia indigena». Solo in un secondo tempo, nel II secolo a.C., quei personaggi entrarono a far parte della mitologia nordafricana.
In ogni caso Martin Bernal già qualche anno fa, nel libro Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (il Saggiatore), approfondì la questione e giunse a due conclusioni: che, incontestabilmente, le origini della civiltà greca andassero cercate in Africa, a suo avviso specificamente in Egitto; e che questa realtà era stata «occultata in maniera sistematica e deliberata» dagli studiosi occidentali sin dal XVIII secolo, «per eurocentrismo o per aperto razzismo». Mary Lefkowitz, studiosa del Massachusetts, in un altro libro, Black Athena Revisited, ha confutato punto per punto le tesi di Bernal. Ma Simon Price e Peter Thonemann, dopo averle riesaminate, sostengono che esse reggono alla missione di «contrastare lo sminuimento culturale di popolazioni di origine africana, operato da teorie implicite o affermazioni esplicite secondo le quali non sarebbe mai esistita una grande cultura africana che ha contribuito complessivamente alla civiltà mondiale e secondo le quali i neri siano sempre stati schiavi». Ciò che, proseguono, «ci sembra ragionevole, equilibrato e ben argomentato». Anche se si sentono in dovere di aggiungere: «Se sia il modo corretto di fare storia oppure no, lo lasciamo decidere al lettore».
In ogni caso i primi contatti dei Fenici con il Mediterraneo occidentale sembrano risalire al X e IX secolo a.C.; ma solo a partire dall’inizio dell’VIII i mercanti nordafricani diedero vita a insediamenti stabili. La diaspora fenicia «fu sbalorditiva per la sua rapidità». A cavallo di due secoli, i Fenici avevano fondato insediamenti in Tunisia e in Sicilia occidentale, tra cui Palermo, a Malta, in Sardegna, a Ibiza, sulla costa andalusa della Spagna. Un secolo dopo, attorno al 600 a.C., i Greci fondarono Massalia, l’odierna Marsiglia.
Comunque all’inizio fu definito Europa tutto ciò che si trovava a ovest dell’Asia, dell’Ellesponto, delle terre dominate dai Persiani. E all’origine fu la guerra di Troia. Per i Greci e per i Romani Troia è la città a cui risale la memoria, in cui il mito ha iniziato a farsi storia: essa è sì alle frontiere dell’Asia, ma «storicamente» è in Europa (vale ricordare che la Daimler Benz per aver sponsorizzato i nuovi scavi nel sito di Troia iniziati nel 1988, è stata premiata dall’Unesco per l’opera a favore del «patrimonio culturale europeo»). Per i Greci, i Romani e anche altri popoli «la guerra di Troia e gli eventi immediatamente successivi costituirono il limite più antico della loro consapevolezza del passato e divennero le fondamenta dell’identità europea».
All’inizio del primo millennio a.C. la distinzione più chiara non è quella tra Est e Ovest, ma fra paesi a nord e a sud delle Alpi. E a nord cosa c’era? Sono state trovate le tracce di qualcosa di importante anche a nord, come l’insediamento, piccolo ma fortificato, di Sobiejuchy, nella Polonia centrosettentrionale, probabilmente abitato tra l’Età del Bronzo a quella del Ferro, un sito che può servire da modello per altri insediamenti centroeuropei di quello stesso periodo. Sobiejuchy, grande circa sei ettari (la coeva Micene occupava quattro ettari), sorgeva su un’isola in un lago ed era difesa da una palizzata di legno. Era fondata su un’economia rurale di sussistenza, con una coltivazione intensiva di una gran varietà di raccolti: miglio, grano, spelta, farro, fagioli, lenticchie e piselli; si allevavano maiali, pecore, cavalli, si pescava e si catturavano animali selvaggi.
Nell’Età del Ferro la regione a nord delle Alpi, a est della Borgogna e a ovest della Repubblica Ceca vide nascere un gruppo culturale stabile e relativamente omogeneo chiamato «cultura di Hallstatt», dal nome di un paese dell’Austria famoso per le miniere di salgemma. Questa cultura nel VI secolo a.C. man mano che, come si è detto, i beni di lusso di manifattura mediterranea cominciarono a viaggiare verso nord lungo il corridoio del Reno, subì una grande trasformazione: «Emerse una nuova classe dirigente che risiedeva in città collinari fortificate in stile greco e che si distinguevano da quelle contemporanee per l’utilizzo di beni di lusso greci». I nobili di Hallstatt furono «consumatori di vino massaliota» e compratori di grandi quantità di vasellame greco da degustazione.
Ma se questo è il poco che si era sviluppato in quello che è oggi il centro del nostro continente, l’Europa di quei tempi giocava la sua partita sull’Ellesponto. Nel v secolo gli asiatici furono all’attacco e gli Ateniesi li respinsero a Maratona (490 a.C.), a Salamina (480 a.C.) e a Platea (479 a.C.). Nell’anno di Platea ci fu la crocefissione di Artaitte, l’episodio dal grande valore simbolico che ci collega all’antica storia europea. Due anni prima, il re persiano Serse aveva condotto il suo immenso esercito al di là dello stretto, con lo scopo di annettere l’intera penisola greca all’impero persiano. Per trasportare l’armata al di là dell’Ellesponto, il gran re aveva unito le due coste con un ponte di barche e si addentrava nell’Europa. In quei giorni Artaitte, governatore per conto di Serse della città di Sesto, aveva «dato ai Greci del luogo una lezione memorabile sul potere persiano» saccheggiando la tomba di Protesilao, sepolcro sacro della guerra di Troia. Protesilao era stato, secondo Omero, il primo greco a essere ucciso appena balzato a terra sulla costa della Troade; la crocefissione di Artaitte fu dunque, ai tempi della sconfitta definitiva di Serse, la vendetta simbolica nei confronti di chi aveva osato violare la memoria della vittoria dell’Occidente sull’Oriente, dell’Europa sull’Asia. Di chi, in altre parole, aveva avuto l’ardimento di mettere in dubbio la supremazia europea, destinata da quel momento ad essere definitiva.
All’inizio del V secolo, il Giro della terra di Ecateo di Mileto, il primo tentativo di descrivere una geografia universale, fu diviso in due libri, il primo si chiamava «Europa», il secondo «Asia». Ecateo descrisse il mondo abitato come un «disco circolare abbracciato dall’Oceano». Tale disco era diviso in due metà uguali, l’Europa e l’Asia appunto, separate da una sola striscia d’acqua, il Mediterraneo e il Mar Nero legati tra loro dall’Ellesponto. Nel 449 a.C., quando gli Ateniesi inflissero un’altra sconfitta alla flotta e all’esercito dei Persiani, il monumento celebrativo ateniese affermava che non c’era stata una vittoria più grande «da quando l’Oceano divise l’Europa dall’Asia». Ma non c’era nessun disprezzo per gli asiatici. Erodoto di Alicarnasso, greco nato sulla costa dell’Asia Minore, nelle Storie seppe descrivere anche i popoli «non europei», le «razze barbare» con «acutezza e simpatia». Tebe ai tempi di Platea si era schierata dalla parte dei Persiani, ma non fu mai considerata una città non greca.
Questo dimostra che, anche se era molto importante sapere chi, in battaglie cruciali, era stato dalla parte dei vincitori e chi da quella dei perdenti, l’Europa non confuse mai il proprio diritto ad esistere con un senso di alterità e superiorità nei confronti degli «altri». Del resto, all’inizio della Guerra del Peloponneso, Tucidide osserva che il termine «barbaro» non è mai usato in Omero, «per il fatto che gli Elleni, a mio parere, non erano ancora riuniti sotto un nome distinto che si opponesse a quello dei barbari». Si tratta, scrivono Price e Thonemann, di «un’osservazione molto acuta». L’Iliade mostra «scarso interesse per le differenze etniche o culturali tra gli Achei e i Troiani»: Tucidide «ha colto il punto cruciale per cui il concetto di barbaro è inestricabilmente legato all’idea di grecità: solo quando i Greci cominciarono a considerarsi un unico popolo con caratteristiche comuni (templi, lingua, antenati), impararono a guardare ai non greci come ad un unico gruppo». Omero non ha alcuna idea di divisione del mondo in due continenti separati. Almeno fino all’Inno omerico ad Apollo, che è del VI secolo a.C., Europa è solo «un termine comodo per la Grecia continentale a nord dell’Istmo, senza alcuna delle connotazioni geografiche e politiche più ampie che avrebbe sviluppato due secoli dopo».
Si calcola che nel 400 a.C. il mondo greco ospitasse almeno 862 città-Stato indipendenti, la stragrande maggioranza delle quali erano situate nel bacino egeo. La loro fu la prima cultura veramente urbana a emergere in Europa: la popolazione totale della Beozia classica può essere stimata tra i 165 e i 200 mila abitanti, di cui circa 100 mila (il 50 per cento o più) vivevano in centri urbani. Si tratta di una percentuale «eccezionalmente alta», fanno notare i due storici; 2.400 anni dopo, nel Settecento, la popolazione urbana dell’Europa nel suo complesso sarebbe stata all’incirca solo il 12 per cento di quella totale: «Nei Paesi Bassi, una delle regioni più urbanizzate dell’Europa continentale, la popolazione arrivava forse al 40 per cento». Va anche detto che quella ateniese era una singolare eccezione. La poco lontana Tracia, equivalente all’odierna Bulgaria, per come ce l’ha raccontata Senofonte, aveva villaggi che consistevano in «una manciata di capanne di legno, ognuna circondata da un’area recintata per il bestiame». Niente di più.
L’impero ateniese del V secolo era diverso da qualsiasi altro Stato mai esistito e da quelli ancora esistenti in Europa fino ad allora. C’erano 700 funzionari ateniesi in servizio permanente all’estero, più del quadruplo di quanti Roma ne avrebbe mandati secoli dopo ad amministrare le province di tutto il proprio impero. Atene imponeva ad ogni città sottomessa l’adozione di pesi, misure e monete uniformi. E in quel periodo gli Ateniesi cominciarono a registrare su pietra inventari dei templi, contabilità edilizia, vendite di proprietà ed elenchi di vittime. Un’«abitudine documentaria» che fa di quest’esperienza un unicum nella storia d’Europa nel mondo antico.
Fu quella ateniese una civiltà superiore? Non in tutto. Price e Thonemann sono colpiti per il fatto che in questa storia antica d’Europa le donne ateniesi avessero una condizione peggiore che nel resto del mondo greco. Per esempio, un codice giuridico del V secolo di Gortina, a Creta, mostra che «le donne del luogo potevano possedere ed ereditare beni, sposarsi e divorziare con relativa libertà e persino generare figli liberi da uno schiavo maschio». Allo stesso modo le donne spartane godevano di diritti legali e di un grado di libertà sociale che inorridiva gli osservatori ateniesi e si diceva che «alla fine del IV secolo due quinti della terra spartana fossero posseduti da donne». Resta dunque «il paradosso che lo Stato più egualitario del mondo greco fosse anche uno dei più repressivi nel trattamento delle donne».
L’Europa fece un importante passo avanti nell’affermazione della propria identità con la comparsa sulla scena di Filippo il macedone e poi di suo figlio Alessandro. Già l’oratore ateniese Isocrate definì Filippo «il più grande dei re dell’Europa», un modo per «identificare gli interessi di quel re con quelli dei Greci», senza dover sostenere che era greco lui stesso. E non è certo un caso che a sua figlia, nata poco dopo la vittoria di Cheronea, Filippo diede il nome Europa. Con l’ascesa della Macedonia come potenza dominante nel mondo greco, «essere europeo finì necessariamente per significare qualcosa di più che essere greco». Filippo e Alessandro «nel loro tentativo di unire la sfera culturale greca e quella macedone, potrebbero essere indicati plausibilmente come i primi europei consapevoli». E quando nel 334 a.C. Alessandro si apprestò a varcare l’Ellesponto, volle prima rendere omaggio alla tomba del Protesilao di cui si è detto e, appena la sua nave approdò sulla costa della Troade, imitò quello stesso Protesilao e volle essere il primo a metter piede sul suolo asiatico.
Dopodiché, se così si può dire, l’Europa travolse l’Asia. Tra il 334 e il 330 a.C. Alessandro conquistò la penisola dell’Asia Minore, la Siria, l’Egitto, il cuore dell’impero persiano cioè la Mesopotamia e l’Iran occidentale fino a spingersi, all’inseguimento di Dario III, in Afghanistan, Uzbekistan e Tagikistan (in quella zona del mondo è stata ritrovata la colonia greca di Ai-Khanoum), in India. Ed è curioso notare che un anno prima di questa colossale impresa, che avrebbe spostato sia pure provvisoriamente in Asia il baricentro dell’impero, nel 335, Alessandro incontrò una delegazione dei Celti. I Celti all’epoca erano scesi dalle foreste del Nord per spadroneggiare nell’odierna Europa, si erano spinti fino a Roma (386) e il grande re macedone fu — forse — sul punto di stringere con loro un’alleanza che ad ogni evidenza, se si fosse realizzata, avrebbe cambiato il corso della storia.
Ma quell’incontro non si concretizzò, così come non ebbe un seguito concreto e duraturo la magnifica avventura di Alessandro in Asia. Toccò a Roma respingere le bande razziatrici venute dal Nord e qualche tempo dopo domare sia i Greci (in soli 53 anni a partire dalla fine della dinastia macedone nel 220 a.C.) che i Fenici. La distruzione di Cartagine e quella di Corinto (entrambe nel 146 a.C.) «segnano un punto di svolta nella storia del Mediterraneo». Da quel momento «anche la conoscenza dell’Europa subì un cambiamento» (i Greci avevano avuto scarso interesse per le aree interne del continente). Le aree dell’Europa centrale si mostrano permeabili alla penetrazione romana. La storia delle società indigene prima della conquista — diversamente da quel che accadeva in Asia — «fu ampiamente dimenticata e rimpiazzata da un passato nuovo e più accettabilmente romano… Le lingue locali entrarono in un rapidissimo declino; persino le pratiche relative al mangiare e al bere furono cancellate dalla diffusione della ceramica e delle colture romane, prima fra tutte la vite».
Fu così che vennero in primo piano popoli un tempo periferici rispetto al mondo greco e che adesso cercavano di assicurarsi un posto in quel mondo, riconnettendo il proprio passato a quello greco più remoto. «Il viaggio di Enea da Troia in fiamme attraverso Cartagine verso l’Italia divenne un punto di riferimento ricorrente per i popoli del mondo romano… La storia che parte da Enea e Romolo, quella dell’ascesa di Roma, che per Agostino d’Ippona (tra il IV e il V secolo d.C.) era la principale città terrena, entrò a far parte del nuovo bagaglio ideologico trasmesso all’Europa cristiana». Il greco divenne l’idioma dominante nel Mediterraneo («il che spiega perché i primi testi cristiani, incluso il Nuovo Testamento, furono scritti in greco e non in aramaico, che pure era la lingua di Gesù»), ma fu il latino che — dopo una lunga stagione in cui l’aristocrazia aveva l’obbligo di essere bilingue — divenne la lingua dominante dell’Occidente. La storia stava procedendo lungo l’itinerario di Rutilio Namaziano, che aveva creduto di andare da un centro ancora vitale (Roma) in una regione priva di prospettiva (l’Europa) e non si era accorto (probabilmente non poteva accorgersi) che stava facendo il percorso inverso.
Paolo Mieli