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 2012  ottobre 30 Martedì calendario

IL CAVALIERE STANCO E LA TATTICA DELL’ECLISSI

È anomalo nella storia berlusconiana l’esodo politico che una manieratissima enciclica rendeva noto mercoledì 24 ottobre, ribadito l’indomani dagli schermi: come se domenica 25 luglio 1943 Benito Mussolini uscisse a piede libero dall’udienza reale pomeridiana, dimissionario spontaneo, avendo indicato possibili successori; e dalla sala del mappamondo comunicasse tale decisione al Führer, esponendo i motivi, paese esausto, guerra insostenibile ecc.; «dimettersi» è parola ignota nel lessico del condottiero infallibile, in sella da ventun anni. All’uomo d’Arcore ne mancano solo due (de facto comandava anche sotto il governo d’avversari sparuti). L’autocrate carismatico non abdica finché abbia spiriti in corpo. I suoi erano affievoliti, vero, ma ha una corte, generali, pretoriani, bellicose amazzoni, indovini, cappellani, tanti caudatari strapagati, e in casi simili l’impero sopravvive imbalsamando il monarca. Non l’hanno nemmeno tentato: segno d’organi logori e discordi; lo servivano a occhi chiusi, in affari talora ignobili, con punte grottesche (vedi gl’interdetti parlamentari sull’uso dei nastri in cui parlano le convitate alle cene cosiddette eleganti), ed eclissato lui, scoppiano le faide; tra i possibili eredi salta fuori persino una mussolinide.
Partiamo da qui. Nella turba forzaitaliota, poi Casa della libertà, indi Pdl, non esiste un soggetto politico: formule vaghe o false (ad esempio, lo slogan liberista, smentito da privilegi e monopoli) mascherano una gestione privata della cosa pubblica; il padrone regna pro domo sua. L’orientamento è criminofilo, con particolare riguardo ai colletti bianchi. Quattro anni fa distava poco dal potere autocratico, sull’onda d’un voto plebiscitario, e lo dilapida, perdendo la premiership. Le cause del collasso saltano agli occhi: gran pirata ai bei tempi, col beneplacito dei politicanti corrotti, non aveva la minima idea del cosa sia governo dei paesi evoluti; favorendo una corruzione che succhia sessanta miliardi l’anno, ha condotto l’Italia a due dita dalla bancarotta; lo stile da commesso viaggiatore s’è risolto in handicap, specie verso l’estero; né gli fa onore lo scenario dei processi che s’è tirati addosso, dove straripa una psicosi narcisistica incompatibile con l’appena serio mestiere politico. Le ultime sonde lo danno al 15%. Da notare come la caduta sia interamente accreditabile al corpo elettorale: svanita l’ipnosi, l’hanno misurato; e non era bello spettacolo. Fosse dipeso dagli avversari, l’esito sarebbe meno catastrofico: influivano correnti omertose; quanti appelli abbiamo udito a «larghe intese». Insomma, imputet sibi, anche le bestialità riconducibili al partito: da qualche tempo gli riusciva molesta persino la sigla; voleva ripartire da zero, ma era opera sua quel Pdl. Il destino baro non c’entra nel declino e caduta della stella berlusconiana. Dato l’uomo, era il meno che potesse succedere.
Veniamo al quesito, se l’ultima mossa sia atto abdicativo, da spontanea autoanalisi critica. No, gliene manca l’organo: e non averlo era fattore d’una strepitosa ascesa nell’Italia d’allora (circa 1980-2008); non sarebbe lì, fosse uno che ragiona, sensibile a elementari modelli d’etica e gusto. L’idea viene da fuori: viste le rovine, qualcuno consiglia il cosiddetto passo indietro o, meno eufemisticamente, desista dalla partita in cui sta giocandosi l’enorme patrimonio; vi hanno interesse famiglia e vertici delle aziende; e malvolentieri li asseconda, nient’affatto penitente. Pentirsi sarebbe un disarmo, psicologicamente inverosimile. L’apparente remissione ha varie arrières pensées.
In primo luogo, non gli costa niente perché l’ipotetica premiership sta nel libro dei sogni: i consensi scenderanno ancora; non sarà la vecchia ciurma a riacquisire le masse e solo dei mangiatori d’oppio sognano che un Davide forzaitaliota uscito dalle file abbatta Golia (nella loro retorica, «il miracolo 1994»).
Rebus sic stantibus, gli conviene l’ombra: schiva la disfatta e relativa vergogna scaricandole sui successori inetti (lo sappiamo cinico nell’uso del prossimo; l’argomento corre già: ecco quanto valgono); e riappare, fidelibus clamantibus.
Basta un fischio: televisioni e giornali sono roba sua; idem i soldi. L’orfano postberlusconiano è gattino cieco.
Insomma, nei quadri del futuro verosimile non imita i rinunciatari Diocleziano e Carlo V (nel convento tra le montagne curava allestimenti funebri, le sue esequie). In politica l’eclissi è risorsa tattica. Giolitti, mago d’arte parlamentare, se ne combina tre: 28 marzo1905-29 maggio 1906; 11 dicembre 1909-30 marzo 1911; l’ultima, aperta nell’equinozio primaverile 1914, è un passo falso, lunga sei anni funesti (non era immaginabile la guerra europea e che lo stupido Antonio Salandra, immischiandovi l’Italia, scatenasse tante sventure). Silvius Berlusco, ripetiamolo, non rischia niente: ripiegando tra le quinte evita una prevedibile sconfitta personale, definitiva; regola conti interni; diluisce memorie ostili; e conserva le mani libere, padrone delle diavolerie mediatiche. Qui entrano in gioco le macchine biopsichiche: non sono età decrepita settantasette anni, quanti ne avrà, ma tutto dipende da come li porta; a settantotto, nell’ultimo dei suoi cinque ministeri, Giolitti usa canoni obsoleti, non applicabili al fenomeno fascista, novità dirompente. Supponendolo riemerso, nemmeno Berlusco felix, ingordo egomane, può aspettarsi un revival dei fasti 2008, quando puntava alla signoria personale: sarebbe già tanto comandare un partitolobby a difesa del patrimonio. D’un punto siamo sicuri, che rispetto a lui siano impossibili antiche sventure sabaude. Dopo gloriose imprese in guerra e pace, Vittorio Amedeo II s’è disamorato degli affari governativi, quindi abdica a favore del figlio Carlo Emanuele, detto Carlino, del quale ha poca stima (3 settembre 1630), ritirandosi a Chambéry. S’era anche risposato: nel giro d’un anno (ne ha 65) cambia idea e torna; vuol riprendere la corona ma Carlino lo rinchiude, su consiglio del ministro marchese D’Ormea. Perfida prigionia. Istupidito, rende l’anima a Dio, 31 ottobre 1632.