Francesca Paci, La Stampa 30/10/2012, 30 ottobre 2012
ELEZIONI IN SICILIA
[Quanto conta l’astensionismo?] –
È vero che a vincere in Sicilia è stato il partito del non voto?
Il dato dell’affluenza alle urne in Sicilia, dove 390 Comuni hanno scelto il presidente della Regione, è il più basso della Storia della Repubblica: 2.203.885 elettori, vale a dire il 47,42% degli aventi diritto (a Palermo il 46,31%). La percentuale dell’astensione siciliana (52,58%) supera così quella della partecipazione violando una specie di tabù nazionale: nel 2008 quando però si votava anche di lunedì e in contemporanea alla Camera e al Senato - gli elettori raggiunsero il 66,68%, nel 2006 il 59,16% e nel 2001 il 63,47%. La tendenza sembra in ascesa tra gli italiani: alle politiche del 2008 ha votato l’80,5% ma alle comunali del 2012 la media è stata del 66,88% al primo turno e del 51,38% al secondo.
L’astensionismo è un fenomeno nuovo in Italia?
Gli italiani sono sempre andati alle urne più massicciamente della media europea. Fino al 1976 (l’anno del temuto sorpasso del Pci sulla Dc) il partito del non voto rappresentava il 6,6% dell’elettorato (e anche la quota delle schede nulle era trascurabile, intorno al 2%), ma negli ultimi trent’anni la situazione è andata gradualmente modificandosi. Nel 2001 l’affluenza era scesa all’81,4% (schede non valide 6%) e nelle elezioni politiche del 2008, dopo l’arresto apparente del fenomeno nel 2006, l’incidenza di non votanti ha raggiunto quota 19,5%.
Perché gli italiani si sono allontanati dalle urne?
Gli studiosi leggono la partecipazione quasi plebiscitaria del dopoguerra come una reazione positiva dei cittadini a un diritto riacquisito dopo anni di regime autoritario. Era anche l’epoca dei partiti di massa e dello stretto rapporto tra cittadini e rappresentanti politici (nel 1976 il 73,1% dei voti era assorbito dai primi due partiti, Dc e Pci, mentre nel 2001 la percentuale di consensi verso i due maggiori concorrenti, Ds e Forza Italia, era scesa al 46%). In questa ottica la disaffezione elettorale deriverebbe dalla convergenza di fenomeni diversi: la dissoluzione dei vecchi partiti, la moltiplicazione e l’eterogeneità dell’offerta talvolta spiazzante per l’elettore, la fine delle ideologie e della paura di contestare chi è stato deludente, la minore passione politica che contraddistingue le democrazie mature.
Com’è la situazione nel resto del mondo occidentale?
Malgrado l’inversione di tendenza degli ultimi anni, l’Italia è rimasta finora una delle democrazie più «votanti» (è anche il Paese europeo con il maggior numero di schede nulle o bianche, negli altri Paesi tendenzialmente chi si astiene resta a casa). Nel 2005 in Germania l’affluenza alle urne è stata del 77,7% (nel 2012 in Nord-Reno Westfalia il 59%), in Spagna nel 2008 del 76%, in Austria nel 2006 del 74,2%, in Francia al primo turno delle presidenziali 2012 del 57% (al secondo turno il 56,29%), in Svizzera nel 2007 del 48,3%, il Grecia il 6 maggio scorso (appuntamento temutissimo) del 60%, in Gran Bretagna nel 2010 del 65,1% (e nel 2012 per il sindaco di Londra appena del 32%). Negli Stati Uniti il voto del 2008 (quello della storica vittoria dell’«europeo» Obama) è stato il più partecipato (oltre il 64%) dal lontano 1960 di John F. Kennedy contro Richard Nixon (63,8%).
A «disertare» sono più gli italiani o le italiane? Il Nord o il Sud? I giovani oppure gli anziani?
Da un punto di vista geografico l’astensionismo è distribuito regolarmente su tutto il territorio nazionale (tra il 1953 e gli anni ’80 la disaffezione si coglie soprattutto al Sud, poi è il Nord che inizia a «disertare»): fra le regioni con il maggiore incremento ci sono Sardegna, Basilicata, Molise ma anche Liguria, Valle d’Aosta, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia. Per quanto riguarda il genere, le italiane sono sempre andate a votare meno degli uomini (a partire dal 1983 la differenza si attesta intorno al 2%). I giovani, almeno a giudicare dai sondaggi, sono i più propensi a utilizzare l’astensione come uno strumento di pressione politica (oltre il 51% tra i 18 e i 34 anni).
Non votare è reato?
Nel 1993 l’astensionismo è stato riconosciuto come un comportamento legittimo del cittadino, ridefinendo il voto come un diritto e non come un dovere (leggi 276 e 277). Ciò non toglie che nell’ampio spettro di coloro che si astengono (per apatia, per protesta, per ragioni demografiche legate all’invecchiamento della popolazione o per disorientamento politico) prevalgano quelli che preferiscono non confessarlo: secondo un’indagine Istat di qualche anno fa, a fronte di un’astensione di circa il 20% meno dell’8% degli interpellati dichiarava di non essere andato a votare.
Cosa succede con il referendum?
In Italia la validità dei referendum abrogativi è subordinata al raggiungimento del quorum, ovvero alla partecipazione al voto di almeno la metà più uno degli aventi diritto. L’astensione, a differenza di qualsiasi altra elezione o consultazione, non è neutra rispetto all’esito dei referendum ma lo determina. Anche in questo ambito la partecipazione è in calo (ma il dato è altalenante): si è passati dall’87,7% del divorzio (1974) al 65,1% del nucleare (1987) ai non sufficienti 43,4% della caccia (1990) e 32% della separazione delle carriere dei magistrati (2000) al vincente 54,82% dell’acqua pubblica (2011).