Mario Baudino, La Stampa 30/10/2012, 30 ottobre 2012
IL PRIMO EDITOR, UN PRETE LIBERTINO
[Le avventure di Francesco Valier nella Venezia del ’500] –
Gli storici della lingua lo sanno, ma gli altri forse no. La parola «concorrenza» entrò nell’uso a Venezia agli albori del Cinquecento, e riguardava la sola impresa libraria, che proprio in quegli anni aveva trasformato l’arte della stampa in una vera industria. «La perfida e rabiosa concorrentia» era ciò di cui gli stampatori confluiti sulla Serenissima da tutta Europa si lamentavano: il termine non aveva come oggi un significato positivo, la concorrenza non piaceva affatto. Ma c’era, e funzionava come un potente motore economico e culturale. L’editoria era appena nata, e già erano presenti tutte le componenti di oggi: per esempio la distinzione che poteva essere assai polemica fra «mercanzia d’utile e mercanzia d’onore», ossia tra la produzione di alto livello culturale e quella commerciale. E soprattutto, già si stava materializzando la figura dell’editor, quella che oggi qualcuno, nell’entusiasmo delle prospettive aperte dalla rete, ritiene in via d’estinzione.
Essere editor per un grande stampatore, di quelli che facevano mercanzia d’onore, era nobile e ardua impresa, non priva di rischi: anche mortali. E Laura Lepri, che di mestiere è una notissima editor indipendente, si è divertita a raccontare la storia di un lontano progenitore, forse il primo in senso moderno (che fece davvero una brutta fine) in Del denaro o della gloria , sottotitolo Libri, editori e vanità nella Venezia del Cinquecento (Mondadori). Sullo sfondo di una Serenissima al culmine della potenza ricostruisce la vicenda di Giovan Francesco Valier, pievano di San Donato in Murano, cacciatore e spregiatore di femmine, autore di novelle pruriginose, grande collezionista di reperti antichi, famelico di denaro, amico di Ludovico Ariosto (che lo cita nel Furioso ) e uomo dalla cultura smisurata, di cui non è rimasto quasi nulla. Solo di recente si è però scoperto che fu lui a mettere in ordine il Cortegiano di Baldassarre Castiglione.
Il testo com’è noto ebbe una gestazione lentissima. Sua Eccellenza Castiglione, nunzio apostolico a Madrid, continuava a limarlo e riscriverlo, mai soddisfatto. Quando si decise a stamparlo, volle il meglio: la stamperia veneziana che era stata di Aldo Manuzio, il re dei tipografi. L’erede, Giovan Francesco Torresani, fedele alla linea di privilegiare i classici, insomma «l’onore» più che la «mercanzia», prima traccheggiò e poi disse una storica frase, che (qualche volta) ancora risuona: «Bisogna ripulire assai bene la lingua».
Per farlo venne scelto Valier, e il risultato del lungo lavoro fu straordinario. Grazie (anche) a lui nacque - correva l’anno 1528 - un grande classico destinato a influenzare nel profondo le corti e la politica d’Europa. E grazie alla pratica sull’indecifrabile scrittura del Castiglione, Valier aggiunse alle già numerose doti quella di abilissimo lettore di messaggi cifrati. Da editor a spia, il passo fu breve. E breve fu il tragitto verso il patibolo, perché, scoperto, venne impiccato nel 1542. Nel testamento chiese di bruciare tutti i suoi scritti. Non sappiamo con certezza se l’ordine sia stato eseguito. È però forte la suggestione che il povero Valier abbia voluto con quel gesto morire proprio da editor: affidato per l’immortalità a un solo lavoro, decisivo e segreto, al servizio esclusivo di un (capo)lavoro altrui.