Piero Bianucci, La Stampa 30/10/2012, 30 ottobre 2012
VERA RUBIN LA DARK LADY DELLE STELLE
Nata nel 1928 a Filadelfia, Vera Rubin dormiva in una stanza rivolta a Nord. Il lato settentrionale del cielo è il più monotono, le stelle sopra l’orizzonte sono le stesse per tutto l’anno, mentre gli spettacoli astronomici più divertenti vanno in scena sul lato Sud. Vera invece fu come ipnotizzata dal lento girotondo delle stelle intorno alla Polare. A 10 anni si procurò delle lenti e le fissò in un tubo di cartone che aveva contenuto un rotolo di linoleum, materiale plastico che allora si usava per fare pavimenti a basso costo.
Con quel telescopio di fortuna incominciò a sondare la notte e a fotografare gli astri. In mancanza di una montatura stabile, i risultati fotografici erano pessimi, scoraggiante era l’invito a lasciar perdere l’astronomia che le veniva dai genitori e dagli insegnanti. Vera resistette a tutte le pressioni. A 17 anni vinse una borsa di studio che le permise di scegliere liberamente la propria strada e nel 1948 al Vassar College si laureò in astronomia. Nel frattempo aveva conosciuto un giovane fisico-chimico e se n’era innamorata. Lo sposò, divenne la signora Rubin e lo seguì alla Cornell University rinunciando a un posto più prestigioso che le offrivano a Harvard.
Alla Cornell l’astronomia era una cenerentola, però il campo era sgombro. Vera si domandò se, sottraendo il moto di espansione dell’universo, rimanesse alle galassie un moto residuo. I dati che raccolse erano sconcertanti: in alcuni casi rimanevano moti in avvicinamento, in altri di allontanamento. Era un indizio della presenza di materia oscura ma questo risultato si poteva anche spiegare supponendo una rotazione dell’universo nel suo complesso. La Rubin lo scrisse in un articolo e l’articolo fu rifiutato dalle due più importanti riviste di astrofisica. Presentò allora le sue osservazioni a un convegno, e lo fece affrettatamente perché in quelle settimane era diventata mamma e doveva allattare il piccolo. Fu sorpresa quando il 30 dicembre 1950 il Washington Post uscì con il titolo «Una giovane mamma scopre il centro della creazione studiando il moto delle stelle».
Aveva vinto una battaglia, non la guerra. Adesso aveva davanti un altro ostacolo: il dottorato. Ingenuamente presentò domanda all’Università di Princeton. Manco le risposero. Non sapeva che le donne non vi erano ammesse, divieto che durerà fino al 1975. Ripiegò sulla Georgetown University, e poiché non sapeva guidare per due anni il marito la accompagnò a lezione e mangiò panini in auto in attesa di riportarla a casa.
Georges Gamow, uno dei profeti del Big Bang, notò l’intelligenza della ragazza e avviò con lei una ricerca per stabilire fino a che punto le galassie fossero distribuite regolarmente. Venne fuori che, contrariamente a quanto la maggioranza degli astronomi pensava, l’universo non è affatto omogeneo. I superammassi di galassie disegnano una specie di gigantesca spugna delimitando enormi cavità in apparenza vuote. Altra scoperta, altro indizio della massa mancante.
Vera Rubin ormai era un’astronoma rispettata. Tuttavia non era consentito né a lei né ad altre donne accedere al telescopio di 5 metri di Mount Palomar. Il motivo era banale ma rivelatore della mentalità maschilista dominante: l’edificio aveva un solo gabinetto, e naturalmente era per uomini. I moduli per chiedere tempo di osservazione al telescopio da 5 metri mascheravano il veto sotto un’avvertenza piuttosto vaga: «A causa della limitazione dei servizi non è possibile accettare domande presentate da donne». Margareth Burbidge aggirava la regola facendo presentare le richieste per notti di osservazione dal marito Geoffrey, ma il suo era un caso speciale perché aveva sposato un astronomo.
Nell’inverno 1965 Vera si trovava a Mount Palomar per un lavoro al telescopio Schmidt da 1,2 metri quando una nevicata la bloccò nell’Osservatorio. Il collega di turno la ammise allora sotto la cupola del telescopio più grande del mondo e nel corso della visita le spalancò anche la porta del famoso gabinetto. Il tabù era svelato e infranto. Capito il motivo del divieto, Vera presentò una richiesta del telescopio da 5 metri sulla quale prima delle parole «non possono essere accettate domande presentate da donne» aveva aggiunto a matita «di solito». La commissione chiamata a valutare non se la sentì di cestinare la domanda. Da quel momento le donne furono ammesse al supertelescopio di Monte Palomar. Nella sua prima notte di osservazione Vera avvitò una silhouette femminile accanto a quella maschile sulla porta dell’unico gabinetto. Pochi giorni dopo qualcuno la tolse ma ormai il diritto era acquisito.
Aiutata da Kent Ford, un collega che aveva fiducia in lei, la Rubin spostò le sue ricerche sulla Via Lattea. Risultò che la nostra galassia corre a 600 chilometri al secondo verso un «grande attrattore» poi identificato come un superammasso di galassie locale. Doveva però esserci anche lì una grande quantità di materia nascosta per giustificare questa corsa. La stessa cosa suggeriva il moto delle stelle sul lato della Via Lattea opposto al nostro osservato dalla Rubin negli Anni 60. Vera estese lo stesso studio alla galassia di Andromeda, poi a un gruppo di 20 galassie e a un altro di 60 galassie. Sempre le stelle periferiche si muovevano quasi alla stessa velocità di quelle interne, e talvolta anche più velocemente: prova indiscutibile della presenza intorno alle galassie di materia oscura disposta in modo da formare aloni invisibili ma dalla massa enorme. Finalmente la comunità scientifica si arrese all’evidenza. Vera Rubin divenne la «dark lady».