Ettore Bianchi, ItaliaOggi 26/10/2012, 26 ottobre 2012
GLI USA SI REINDUSTRIALIZZANO
[Complici il costo diminuito dell’energia e i bassi salari] –
Il made in Usa torna d’attualità. Dopo anni in cui spostare la produzione industriale in paesi come la Cina era quasi un obbligo, adesso gli imprenditori americani si accorgono che, fatti bene i conti, conviene tornare in patria. Dove i salari bassi e l’energia a buon mercato permettono di essere nuovamente competitivi, evitando lunghe e costose trasferte all’estero.
È significativa la storia di Neutex, un’azienda che costruisce lampadine a bassa tensione con un fatturato annuo di 30 milioni di dollari (23,1 mln euro).
Il suo proprietario, John Higgins, l’aveva trasferita nell’ex Celeste impero, ma due anni fa ha cambiato idea, interrompendo i contratti di subappalto per tornare a Houston. Da allora ha creato 150 posti di lavoro. Mettendo insieme tutti i fattori (dai costi di produzione e di trasporto alla soddisfazione dei clienti, dalla velocità di reazione alla tutela dei brevetti, fino ai costi per i lunghi viaggi con relativo stress), il verdetto è stato sorprendente: non c’era più così tanta convenienza a rimanere in Asia. Ormai quello di Neutex non è più un caso isolato. Un colosso come Caterpillar ha annunciato l’apertura di nuovi stabilimenti negli Stati Uniti. Anche GE ha in cantiere 15 impianti. Siemens ha ridotto la sua presenza in Asia per concentrarsi nella Carolina del Nord. Gli esperti sostengono che è l’inizio di una grande ondata di reindustrializzazione. Oltreoceano, nonostante i segnali contrastanti, le aziende stanno reagendo bene alla crisi.
Uno studio di Boston Consulting Group afferma che nei prossimi anni saranno creati da 700 mila a 1,3 milioni di posti di lavoro nel settore industriale. Poco meno di metà dei dirigenti di imprese con oltre 10 miliardi di dollari di giro d’affari prevede di rimpatriare parte della produzione.
Sono due gli elementi che hanno reso possibile quello che, fino a non molto tempo fa, sembrava un traguardo irraggiungibile. Il primo è il costo del lavoro, che in Cina continua a crescere. Come ricorda un analista di Boston Consulting, all’avvio della delocalizzazione la paga oraria dei lavoratori cinesi ammontava a 45 centesimi di euro, mentre oggi tocca i 2,3 euro e nel 2015 è attesa a 4,9 euro. Con il costo del lavoro in aumento del 15% all’anno, spese di trasporto anch’esse in crescita e una produttività tre volte inferiore a quella di un operaio americano, la bilancia comincia a pendere dalla parte degli States.
Dopo la crisi del 2008, poi, la competitività è ulteriormente salita rispetto all’Europa e al Giappone. Così Toyota ha deciso di fare degli Stati Uniti la sua piattaforma per l’export e Airbus aprirà una fabbrica in Alabama.
L’altro fattore di successo è il prezzo dell’energia. La disponibilità di grandi riserve di gas di scisto, che si estrae più facilmente dalle rocce sotterranee grazie alle nuove tecnologie, ha diminuito di tre volte il costo del gas naturale negli ultimi quattro anni. Entro il 2020 la bolletta, secondo le stime, dovrebbe ancora dimezzarsi. Perciò una multinazionale che dovesse insediarsi in Texas pagherebbe l’elettricità dal 50 al 70% in meno rispetto agli altri paesi sviluppati. Contrordine, si torna in America.