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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

TRAVAGLIO È BRAVISSIMO, RIESCE A FAR PARLARE ANCHE I MORTI

Come spesso accade, il Fatto Quotidiano ha scelto una strada tutta sua per dare la notizia (e commentarla) del passo indietro di Silvio. Berlusconi scappa». Il sommario (e l’editoriale del direttore, Antonio Padellaro) allude a una fuga di carattere giudiziario: «Ora l’ex Caimano deve salvare le sue aziende e salvarsi dai processi». Ma poi, smentendo la teoria appena enunciata, Padellaro conclude: «Adesso non gli resta che garantirsi uno straccio d’immunità con un seggio al Senato». La permanenza al potere (o, comunque, in una posizione di grande rilievo) dovrebbe funzionare di più di un seggio qualunque a Palazzo Madama. La verità è che proprio il potere ha attirato sul capo di Berlusconi (per diciott’anni, senza interruzioni) i fulmini delle procure. Un ritiro assoluto dalla scena politica sarebbe la formula migliore per smorzare l’accanimento delle toghe contro di lui.

Ma il pezzo forte del Fatto Quotidiano ieri in edicola era rappresentato (come i lettori sanno) dall’articolo (ieri articolessa: non la solita colonna, ma una pagina intera più la colonna in prima) dal pezzo di Marco Travaglio che, una volta tanto, non si è affidato alle requisitorie in aula dei pm, ma ha scelto, come filo conduttore della sua catilinaria, gli sfoghi che gli fece (in privato, e senza intercettazioni ambientali) Indro Montanelli. Una volta, a pranzo (loro due), nell’autunno del ’93 gli disse, a proposito di colui che era ancora l’editore de Il Giornale: «S’è fissato con la politica. Dice che il pool di Milano sta per arrestarlo e le sue aziende stanno fallendo per debiti. S’è fissato di fare il premier, ma se un poco lo conosco, vuole diventare presidente della Repubblica. Se ci riesce, e lui è sempre riuscito dappertutto, con quali metodi preferisco non saperlo, siamo rovinati. Sia come italiani (ti dico solo questo: Confalonieri lo chiama il Ceausescu buono), sia come giornalisti del Giornale. Mi ha già detto che vuole tutti al servizio del suo partito e io gli ho già detto di no. Vedrai che scatenerà l’apocalisse».

L’8 gennaio 1994, Montanelli rassegnò le dimissioni dal Giornale e il 22 marzo (sei giorni prima delle elezioni che portarono per la prima volta Berlusconi a Palazzo Chigi) uscì il primo numero de La Voce, il nuovo quotidiano fondato da Montanelli con un gruppo di giornalisti, fra i quali Travaglio, usciti dal Giornale. Travaglio racconta che la Voce fallì dopo tredici mesi a causa della persecuzione di Berlusconi, resa agevole dalla connivenza della sinistra. «Nel marzo 2001», riprende il racconto del montanelliano di ferro, «assistetti praticamente in diretta all’intervista di Montanelli a Biagi, quella censurata da Rai1 nella parte in cui il Vecchio vaticinava: ’Governerà senza quadrate legioni, ma con molta corruzione’. Ne parlai a lungo con lui: mi aveva invitato a pranzo dopo la mia ospitata da Daniele Luttazzi, dove avevo presentato L’odore dei soldi, il primo di una lunga serie di libri a lui dedicati, scritto con Elio Veltri. E mi ero beccato sette cause civili: due da B., due da Forza Italia, una da Fininvest, una da Mediaset (’sono cose diverse – disse Luttazzi – quando si tratta di incassare’), una da Temonti per un totale di 120 miliardi di lire (poi tutte vinte)».

In questo secondo pranzo (sempre immune da intercettazioni ambientali, «Stai attento, Marco – mi disse il direttore – questa volta durerà a lungo e io sono felice del fatto che non vedrò la sua fine. Combatti la tua, la nostra battaglia, ma guardati le spalle, perché l’uomo sembra simpatico, e a piccole dosi lo è, ma con chi gli tocca la roba – cioè i soldi e l’immagine – è vendicativo, e i suoi servi ancor di più. Saranno anni terribili». Montanelli morì quattro mesi dopo.

L’autore di questo articolo si riserva di rivelare il contenuto dei colloqui segreti con Montanelli nel 2031, a venti anni dalla scomparsa (lo stesso termine previsto per gli archivi di Stato).