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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

Hitchens, cronaca (vera) di una morte annunciata - Ivan Il’ic non avrebbe mai potuto fare un’opera sulla propria morte, ci voleva Tolstoj, così come Malone poteva descrivere la propria ago­nia solo grazie a Samuel Beckett, e Gustav Von Aschenbach poteva morire decadentisticamente a Ve­nezia solo grazie a Thomas Mann

Hitchens, cronaca (vera) di una morte annunciata - Ivan Il’ic non avrebbe mai potuto fare un’opera sulla propria morte, ci voleva Tolstoj, così come Malone poteva descrivere la propria ago­nia solo grazie a Samuel Beckett, e Gustav Von Aschenbach poteva morire decadentisticamente a Ve­nezia solo grazie a Thomas Mann. Stessa cosa per l’Every­man di Philip Roth, o per il prota­gonista della Storia di un corpo , l’ultimo romanzo di Daniel Pen­nac. Forse perché già scrivere è «un suicidio differito», secondo una bella definizione di Emil Cio­ran, il quale ha sempre scritto di morte, squartamenti e estinzioni ma, come Beckett e Tolstoj, ha poi avuto la fortuna di vivere a lun­go, e la vecchiaia in qualche mo­do anestetizza l’esistenza, sottr­a­endoci la vita giorno dopo giorno. Ecco perché in pochi hanno sa­puto scrivere il diario di una ma­lattia improvvisa, incurabile, ter­minale, non al punto da farne un’opera. Oriana Fallaci ne fece un teatro giornalistico, una spe­cie di show, una lunga intervista con se stessa. Diverso è il suicidio: Il mestiere di vivere di Cesare Pave­se c­i porta dritti fino alla morte del­l’autore («Non parole. Un gesto. Non scriverò più»), e così i diari di Guido Morselli, che mantengono un rigore stilistico impeccabile fi­no alla fine, finché l’autore non si spara con una Browning calibro 7 e 65, «la ragazza dall’occhio ne­ro ». Ma il suicidio da sani non è la condanna di una malattia termi­nale, è un atto volontario, e la sua pianificazione letteraria lascia aperta la possibilità di un ripensa­mento: perfino Leopardi ha medi­tato il suicidio, ma nel suo cosid­detto «pessimismo cosmico» (la denominazione religiosa del rea­lismo) invece è morto a Napoli, di colera, mangiando un gelato. Negli anni in cui l’Aids mieteva vittime all’ordine del giorno, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, uscirono molti diari di morte: in Italia il tutto somma­to melenso e patetico Il male di Dario Bellezza, senza alcuna colpa di Bellezza, perché è difficile morire e mantene­re la lucidità e lo stile e non rendere la propria scrittu­ra una lagna, un lamen­to, un grido d’aiuto. D’altra parte era un poeta, quindi lagno­setto lo era pure quando stava bene. Invece l’unico grande scrittore che io ricordi capace di un’impresa estrema è stato il francese Hervé Guibert, morto di Aids a soli trentasei anni: Le re­gole della pietà , All’amico che non mi ha salvato la vita e Citomegalovirus (diario d’ospedale) sono dei capola­vori della letteratura scritta sulla propria pelle, sul pro­prio corpo. Volen­do c’è perfino un film,un’auto-docu­fiction dell’agonia finale intitolato La pudeur ou L’impu­deur , che si può ac­quistare in DVD e di cui potete trovare dei frammenti su Youtube. Alla bibliografia della morte si può aggiungere l’appe­na pubblicato Mor­talità (Piemme, pagg. 99, euro 12), l’ultimo libro di Christopher Hi­tchens, morto il 15 dicembre del­lo scorso anno per un devastante cancro all’esofago. È un diario breve, essenziale, in parte pubbli­cato in presa diretta su Vanity Fa­ir , e sfrondato da ogni orpello reto­rico, vittimistico, consolatorio. Non è un libro pessimista, molto peggio, come non era pessimista Leopardi (sono gli altri, gli illusi, a essere irrazionalmente ottimi­sti). È un libro realista, è come il Gregor Samsa di Kafka che si sve­glia una mattina metamorfosato in uno scarafaggio ma qui non c’è metafora, la trasfigurazione è la realtà. Un risveglio con i polmoni come riempiti di cemento a presa rapida, il cuore improvvisamen­te rallentato, gli infermieri del 911 che fanno irruzione nell’al­bergo «per una deportazione fer­ma e gentile oltre il desolato confi­ne della terra della malattia ». Una terra da Christopher battezzata Tumortown, affrontata da Hi­tc­hens con la stessa vulcanica de­terminazione con cui ha affronta­to la vita, senza reti di protezione. Un corpo a corpo con se stesso «nel brutale mondo fisico», per­dendo i capelli, la sessualità,l’ap­petito, la speranza di vedere i pro­pri figli sposati, e anche quella di «scrivere i necrologi di vecchie ca­naglie c­ome Henry Kissinger e Jo­seph Ratzinger ». E senza mai per­dere il coraggio di andare fino in fondo, avendolo già toccato, il fondo, e non potendolo più risali­re. Potendo solo confutare in pri­ma persona non solo la misera consolazione della religione, sempre combattuta insieme agli amici Richard Dawkins e Ian McEwan, ma perfino il pensiero di Nietzsche, per il quale «ciò che non uccide fortifica», un intero ca­pitolo per dire che non è vero, Nietzsche si sbagliava: ciò che non uccide ti uccide lentamente, ogni giorno di più. È vero per tutte le cose, è la seconda legge della termodinamica, vale tragicamen­te anche per l’uomo. «Alla stupida domanda “per­ché io?” l’universo si prende a ma­lapena il disturbo di replicare: “perché no?”» scrive Hitchens. Forse in un eccesso di salvifico egocentrismo, perché l’universo non si prende neppure questo di­sturbo, è completamente indiffe­rente. Qui sarebbe stata più effica­ce l’immagine di Paul Valéry: quando noi guardiamo le stelle, le stelle sembrano dirci «Tu o un altro,a noi che ci importa».In real­tà non ci dicono neppure quello. Quando incontrava gli ami­ci Hitchens gli diceva sen­za giri di parole che aveva un tumore al quarto sta­dio e «il problema del quarto stadio è che non ne esiste un quin­to ». Senza credenze e comodini dell’ani­ma che non c’è, sen­za medicine tanto alternative quan­to illusorie, «il brutale mondo fisico» è tutto ciò da cui rifug­ge la televisio­ne, la vita, la nostra quoti­dianità. Le persone restavano in­terdette, imbarazzate di fronte a chi ti sbatte in faccia la propria morte, la verità della vita. E infatti un’altra verità è che libri come questo di Hitchens non servono a niente: i sani li rifuggono, i malati non vi troveranno nessuna conso­lazione. E va messo nel pantheon dei grandi libri per questo: per­ché solo pochi hanno il fegato, e pardon , anche le palle, di scriver­li.