Mario Margiocco, Il Sole 24 Ore 27/10/2012, 27 ottobre 2012
IL MIRAGGIO DELLA CRESCITA AMERICANA - È
una crescita riluttante al 2 per cento, decisamente invidiabile vista dalla recessione dell’eurozona (-0,3, al momento), e un miraggio vista dalla grande recessione italiana, dove il Pil scende quest’anno di oltre il 2 per cento. Ma quella del terzo trimestre 2012, con un provvisorio più 2% su base annua, è una crescita fragile per un’America uscita dalla recessione ormai più di tre anni fa e che non ha mai avuto da 70 anni una ripresa così asfittica come quella incominciata nel giugno 2009 e seguita alla Grande Recessione del 2007-2009. Politicamente, a dieci giorni dal voto, si tratta poi di un dato neutro, aspettando quello ancora più atteso di venerdì 2 novembre sulla disoccupazione, che rischia di essere altrettanto neutro. Obama non può dire che c’è uno scatto. E Romney non può certo dire che c’è un tonfo.
Continua, lentamente, lo smaltimento della grande indigestione debitoria del 1995- 2006, un cammino che ancora richiede tempo e che vede le famiglie americane, il vero motore in un’economia basata per il 70% e oltre sui consumi, a meno di metà del guado nel ritorno a tassi di indebitamento storici. Il debito era al 134% del reddito disponibile nel 2007, è ora al 113% mentre la norma degli anni 1970-1999 è stata del 75 per cento. Quando si abbatte il debito si spende meno. Il tutto poi avviene all’ombra del fiscal cliff, del baratro fiscale, il rischio molto concreto di paralisi imminente quando con il primo gennaio prossimo finiranno i tagli fiscali decisi dieci anni fa da George W. Bush, e termineranno altri sostegni al reddito delle famiglie decisi da Obama nel 2010. Il gettito aumenterà del 2,7% del Pil e l’economia, visto che le maggiori entrate federali andranno tutte a ridurre il deficit e non in spese, si troverà con almeno il 2,7% del Pil, cioè circa 400 miliardi di dollari, in meno. Sarebbe la recessione sicura ed è anche per questo che la crescita arranca, perché le imprese investono poco non sapendo con quale consumatore avranno a che fare nel 2013. È una crescita riluttante al 2 per cento, decisamente invidiabile vista dalla recessione dell’eurozona (-0,3, al momento), e un miraggio vista dalla grande recessione italiana, dove il Pil scende quest’anno di oltre il 2 per cento. Ma quella del terzo trimestre 2012, con un provvisorio più 2% su base annua, è una crescita fragile per un’America uscita dalla recessione ormai più di tre anni fa e che non ha mai avuto da 70 anni una ripresa così asfittica come quella incominciata nel giugno 2009 e seguita alla Grande Recessione del 2007-2009. Politicamente, a dieci giorni dal voto, si tratta poi di un dato neutro, aspettando quello ancora più atteso di venerdì 2 novembre sulla disoccupazione, che rischia di essere altrettanto neutro. Obama non può dire che c’è uno scatto. E Romney non può certo dire che c’è un tonfo. Continua, lentamente, lo smaltimento della grande indigestione debitoria del 1995- 2006, un cammino che ancora richiede tempo e che vede le famiglie americane, il vero motore in un’economia basata per il 70% e oltre sui consumi, a meno di metà del guado nel ritorno a tassi di indebitamento storici. Il debito era al 134% del reddito disponibile nel 2007, è ora al 113% mentre la norma degli anni 1970-1999 è stata del 75 per cento. Quando si abbatte il debito si spende meno. Il tutto poi avviene all’ombra del fiscal cliff, del baratro fiscale, il rischio molto concreto di paralisi imminente quando con il primo gennaio prossimo finiranno i tagli fiscali decisi dieci anni fa da George W. Bush, e termineranno altri sostegni al reddito delle famiglie decisi da Obama nel 2010. Il gettito aumenterà del 2,7% del Pil e l’economia, visto che le maggiori entrate federali andranno tutte a ridurre il deficit e non in spese, si troverà con almeno il 2,7% del Pil, cioè circa 400 miliardi di dollari, in meno. Sarebbe la recessione sicura ed è anche per questo che la crescita arranca, perché le imprese investono poco non sapendo con quale consumatore avranno a che fare nel 2013. Sia Obama che Romney dicono che eviteranno lo choc con accordi-ponte in attesa di trovare nel corso dell’anno un accettabile equilibrio fra entrate e spesa federale, ma non c’è fiducia nella capacità politica di gestire, se non in modo cruento, un deficit cronico del 30% fra entrate e uscite. L’Europa stagna nelle morse dell’austerità che sta risanando i bilanci, se non uccide le economie. Ma l’America deve affrontare ancora questo passaggio, evitato finora grazie al credito internazionale di cui gode, alla capacità non intatta ma ancora notevole di indebitarsi ulteriormente, e al ruolo internazionale del dollaro. Se c’è un errore che potrebbe costare a Barack Obama la rielezione, è l’aver sottovalutato la portata della crisi del 2007- 2008. Né poteva fare altrimenti, perché avendo affidato le redini dell’economia agli uomini della squadra di Bill Clinton, responsabili quindi o corresponsabili di varie scelte sciagurate degli anni 90 foriere della crisi finanziaria, questi non gli dicevano davvero di trovarsi di fronte a una crisi di portata eccezionale. Obama quindi ha promesso più volte e invano la "vera" ripresa, la prima attesa a fine 2009. La storia economica, materia ignorata a lungo dagli "scienziati" del l’economia ma assai rivalutata dopo il 2008, diceva già nel 2008 che c’è una relazione tra i livelli di indebitamento eccessivi, lo scoppio di una crisi, il danno da questa inflitto all’economia reale, e il tempo necessario per riemergere a riveder le stelle. Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, nel loro citatissimo studio del 2009 This Time is Different, scritto per dimostrare invece che non sarebbe stato diverso dal passato, stabilivano un primo parametro legato al debito pubblico. E poiché il debito stava diventando eccessivo anche per gli Stati Uniti, dicevano, l’uscita dalla crisi sarebbe stata lunga, almeno sei-sette anni, a partire dal 2008. Oggi il Pil pro capite reale americano è ancora inferiore del 2% circa ai picchi raggiunti nel quarto trimestre del 2007, dopo essere sceso del 6% quasi a metà 2009. Risultati ancora più puntuali emergono da una serie di studi più recenti che hanno preso in esame il più diretto rapporto, rispetto alla crescita, fra indebitamento privato e Pil. Uno degli ultimi, dovuto allo spagnolo Òscar Jordà, all’americano Alan M. Taylor e al tedesco Moritz Schularick, dice che il peso dei disordini finanziari sulla crescita è stato ampiamente e sistematicamente sottovalutato negli ultimi 30 anni. Il debito totale privato era nel 2006 rispetto al Pil il 40% in più circa rispetto a quello del 1929. Pur tenendo conto dei ben più massicci interventi delle banche centrali rispetto agli anni 30, più efficaci però sul fronte bancario che non sull’economia reale, non sembra realistico che sia lo stesso Obama che Romney, nonostante tutte le fresche promesse di quest’ultimo, riescano a recuperare il terreno perduto se non alla vigilia delle prossime elezioni del 2016.