Gilberto Corbellini, Il Sole 24 Ore 28/10/2012, 28 ottobre 2012
EPISTEMOLOGO DELLE ZANZARE
«Coluzzi è l’uomo che sa che cosa pensa una zanzara», diceva uno dei più importanti immunoparassitologi statunitensi di Mario Coluzzi, entomologo e malariologo di fama internazionale, scomparso domenica scorsa all’età di quasi settantaquattro anni.
Era il 1990 quando lo conobbi, e iniziammo a collaborare per studiare e valorizzare la tradizione storica della malariologia italiana. Il «professor Coluzzi» – così era chiamato, e un po’ lui si compiaceva che quel titolo gli fosse arrivato per comprovata fama e in assenza di una laurea (non si era mai laureato «per non sostenere l’esame di zoologia») – ventidue anni fa era al massimo del suo splendore come scienziato e docente. Ho quindi avuto la straordinaria e unica fortuna di essere guidato da lui, e dal suo modo scientifico – quindi anche non sempre razionale – di esaminare ogni cosa, nel mio avvicinamento ai temi e problemi della storia della medicina.
Coluzzi aveva un’intuitiva consapevolezza degli stimoli euristici che possono venire dal confrontare i contenuti della ricerca biomedica di frontiera con i fatti storici e le idee epistemologiche della ricerca fondamentale e applicata. E attribuiva enorme importanza alla divulgazione scientifica, poiché sapeva quanto fosse precaria la sopravvivenza della razionalità scientifica in un mondo umano mosso prevalentemente da pulsioni pleistoceniche. Posso immaginare come sarebbe inorridito di fronte all’oscurantista e tribale sentenza del tribunale de L’Aquila, di cui si parla da una settimana.
Ma c’era molto di più. Coluzzi si sentiva parte di una scuola medico-scientifica con una tradizione secolare: la scuola italiana di malariologia, che alla fine dell’Ottocento trascinò una giovane e povera nazione sul palcoscenico internazionale, contribuendo in modo essenziale alle storiche scoperte dei parassiti e dei meccanismi di trasmissione dell’infezione malarica. Una tradizione entrata in sonno dopo l’eradicazione dell’infezione e che lui ha riportato ai vertici mondiali della competitività scientifica. L’ha fatto investendo e scommettendo sempre sui giovani, cioè motivandoli con entusiasmo all’apprendimento e all’uso del metodo scientifico. Il suo interesse per la storia della malaria era dettato anche dalla consapevolezza, mai ostentata ma sobriamente praticata, che lui in quella storia c’era.
Era partito avvantaggiato. Aveva assorbito la scienza malariologica preso per mano nell’immediato secondo dopoguerra e nel pieno della campagna di eradicazione della malaria dal padre Alberto. Ma agli inizi degli anni Sessanta era già un entomologo noto internazionalmente per gli studi sul meccanismo d’azione degli insetticidi ad azione residua, cioè sugli effetti del Ddt sul comportamento delle zanzare. La sua prima genialità fu di applicare e innovare l’analisi dei cromosomi politenici allo studio della tassonomia delle zanzare malarigene africane, scoprendo la possibilità di differenziare citogeneticamente come specie diverse, zanzare identiche allo stadio adulto.
Mentre metteva a punto le tecniche citogenetiche da applicare sul campo per classificare i vettori di malaria in Africa, tecniche che risultarono essenziali per migliorare le strategie di lotta contro la malattia, gli venne un’altra idea formidabile. Da profondo conoscitore della genetica evoluzionistica pensò di applicarla per provare a spiegare i rapporti tra la distribuzione ecologica e popolazionale dei vettori di malaria, e l’intensità di trasmissione dell’infezione. Iniziava a quel punto un’avventura scientifica da cui è scaturito un capitolo fondamentale delle conoscenze evoluzionistiche sulle origini e gli adattamenti tra parassita malarico, zanzare e uomo che caratterizzano un ecosistema millenario come quello della malaria sub-sahariana. In generale, la malaria, come Coluzzi e la sua scuola hanno per primi dimostrato, è un modello formidabile per capire le basi darwiniane dell’evoluzione biologica. L’autorevolezza di Coluzzi come entomo-epidemiologo della malaria era tale che quando «Science» ha pubblicato il genoma di Anopheles gambiae, con il suo gruppo è stato invitato a riportare i sui dati genetico-evolutivi.
L’impegno di Coluzzi è stato esemplare anche sul fronte politico-sanitario, cioè nel tentare di trasferire le conoscenze scientifiche per ridurre l’impatto della malaria in Africa. Oltre all’attività svolta con il ministero degli Affari esteri per condurre ricerche in campo e formare personale locale in Mali e Burkina Faso, ha fatto da tutor e suggeritore a decine di ricercatori ed esperti di sanità pubblica africani, che oggi vedono declinare la malaria grazie alle misure sostenute dall’Oms anche sulla base dei suoi autorevoli e ascoltati consigli.
In questo impegno entrava ulteriormente in gioco il suo interesse per la storia della malaria. Riteneva, infatti, che il successo italiano non avesse nulla da insegnare agli africani sul piano dell’ecologia del problema, ma che fosse importante come chiave politico-culturale. La malaria è stata sconfitta in Italia, mi spiegava sempre, anche perché fu costantemente presente una ricerca di base e applicata, e perché la malattia fu oggetto di attenzione politica. Coluzzi ha capito prima di tutti i colleghi che solo un riscatto scientifico-culturale locale avrebbe consentito la soluzione del problema malaria, insieme con altri in Africa sub-sahariana.
Mario, come sa chi lo frequentava, si apriva in volto e gli s’illuminavano gli occhi quando metteva a fuoco qualche idea che attirava la sua curiosità intellettuale, o che confermava qualche sua ipotesi. Mentre la lunga e crudele malattia ne cementava inesorabilmente il corpo, imprigionando sempre di più il pensiero e le parole, il suo sguardo ha continuato per anni a trasmettere quella luce critica e raziocinante che per qualcuno, certamente per me, è stata un faro intellettuale di riferimento. E che nel ricordo lo rimarrà sempre.