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 2012  ottobre 28 Domenica calendario

GOTOR TRA SANTI STRAVAGANTI - I

processi di canonizzazione sono affidati alla Congregazione per le cause dei santi, uno dei nove dicasteri in cui si articola il governo della Chiesa, talvolta definita come la «fabbrica dei santi», prendendo a prestito un’espressione di san Gregorio Magno. Una fabbrica variamente impegnata nel corso dei secoli, i cui lavori hanno conosciuto una violenta accelerazione nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), che con i 482 santi da lui proclamati (oltre a 1.341 beati) ha surclassato Pio XII (1939-1958), Giovanni XXIII (1958-1963) e Paolo VI (1963-1978), limitatisi rispettivamente a 33, 10 e 64. La politica della santità non investe tuttavia solo i numeri (che pure hanno il loro peso), ma soprattutto la scelta dei modelli di perfezione da additare alla venerazione dei fedeli: martiri e taumaturghi, mistici e teologi, stigmatizzati e protagonisti di apparizioni mariane, fondatori di ordini religiosi ed eroi della carità, donne che sacrificano la vita pur di non abortire e preti perseguitati da regimi anticristiani, semplici contadini e sommi pontefici, e tra di essi tanto papa Pio IX del Vaticano I e del Sillabo quanto papa Giovanni del Vaticano II. Risultano evidenti, per esempio, le implicazioni ideologiche della canonizzazione di un campione dell’antilluminismo come sant’Alfonso de’ Liguori, o di Bernadette Soubirous, protagonista dell’apparizione di Lourdes, o del fondatore dell’Opus Dei Josemaría Escrivá de Balaguer.
Nella politica della santità, del resto, si sono sempre riflessi gli orientamenti dottrinali e pastorali, i timori, le idiosincrasie e le condanne della Chiesa nel corso dei secoli, specie dopo il rigoroso accentramento romano di tale questione dopo il concilio di Trento. Si sono riflesse anche una molteplicità di pressioni provenienti dal basso e dalla periferia, dal pullulare di spontanei culti popolari, dalle istanze di singole diocesi o di ordini religiosi per la promozione all’onore degli altari di propri esponenti, oppure di potenti famiglie a caccia di nuove glorie dinastiche, o di realtà variamente presenti nel corpo della Chiesa desiderose di legittimazioni istituzionali, di prestigio, di virtù carismatiche. E si sono infine riflesse le tensioni interne, le rivalità e talora gli aspri conflitti tra le diverse anime della galassia cattolica, francescani contro domenicani, teatini contro gesuiti, santi contro santi insomma, a caccia di primati, di primogeniture, di meriti con cui nutrire le diverse vocazioni identitarie e rivendicare la propria gloria. Si pensi alla controversa figura di padre Pio, per esempio, fieramente avversata da personaggi quali padre Agostino Gemelli o papa Roncalli, ma giunto infine alla canonizzazione sull’onda di una poderosa spinta dal basso e di autorevoli protettori curiali. Fare santi, insomma, significa lanciare messaggi, affermare principi, definire gerarchie, parlare al mondo contemporaneo, e talora vincere ardue battaglie.
Tra queste battaglie ci porta il penetrante libro di Miguel Gotor, Santi stravaganti. Agiografia, ordini religiosi e censura ecclesiastica nella prima età moderna (Aracne, Roma, pagg. 294, € 17,00), che illustra vicende talora sorprendenti che coinvolsero la fabbrica dei santi fra Cinque e Seicento, nei cruciali decenni in cui la politica della santità venne definendo le sue procedure e le sue priorità. Al centro della ricerca si pongono le censure imposte e le autocensure volontarie che interessarono le vite dei santi (testi più o meno ufficiali, scritti editi e inediti, bolle di canonizzazione), sulle quali le autorità romane esercitavano un attento controllo, anche in considerazione dell’ampio uso devozionale e omiletico dell’agiografia e quindi della sua capillare diffusione sociale. Scrivere vite di santi significava non solo raccontare eventi, rivestirli di raffinata retorica e al tempo stesso trascenderli in virtù di guarigioni miracolose, apparizioni, speciali carismi, eccezionali doni divini eccetera, ma anche scegliere che cosa sottolineare o attenuare, che cosa nascondere o – se necessario – inventare o falsificare. Nel caso di san Carlo Borromeo, per esempio, la sfocata figura del cardinal nipote di papa Pio IV era ben poca cosa rispetto a quella dell’esemplare arcivescovo di Milano, modello di austerità, di devozione, di solerzia pastorale, di abnegazione caritativa, ma al tempo stesso protagonista di conflitti tanto con la corona spagnola quanto con la curia romana: ed ecco allora le sue biografie diventare terreno di scontro tra Roma e Milano e oggetto di censure, per riaffermare i privilegi giurisdizionali della Chiesa, per depotenziare l’autonomia delle diocesi e ribadire il primato papale, per subordinare l’immagine del vescovo a quella del cardinale (con tanto di precisa disposizione a rappresentare san Carlo sempre in veste purpurea). Questioni giurisdizionali e rapporti con la Spagna dei re cattolici e padroni dell’Italia filtravano anche dalle biografie agiografiche di san Pio V, erede del rigore inquisitoriale di Paolo IV Carafa, che nel 1557 aveva scatenato un’assurda guerra e scagliato i fulmini del Sant’Ufficio contro Carlo V e Filippo II. Nel caso di sant’Ignazio si poneva il problema di un santo fondatore che non aveva compiuto miracoli, il che riapriva il delicato problema dell’irriducibile diversità della Compagnia di Gesù e dello sfuggente spiritualismo mistico del Loyola che, per conformarsi ai canoni romani, si vide inopinatamente attribuire una miriade di guarigioni miracolose e di ossessi liberati dai demoni. In ogni caso, i devoti di papa Pio V e di sant’Ignazio ne lessero vite diverse in Spagna e in Italia. Quanto ai cappuccini, l’impresa di trovare un santo fondatore presentabile era a dir poco disperata fra le continue disobbedienze di Ludovico da Fossombrone e di Matteo da Bascio e la fuga in terra calvinista di Bernardino Ochino.
Lungi dal presentarsi come armonioso strumento di una rinnovata identità cattolica la fabbrica dei santi postridentina rivela in queste pagine «il volto oscuro di una maschera propagandistica altrimenti lucente, fatta di teatri di canonizzazione, riti sfarzosi e celebrazioni pontificie», al di sotto della quale appaiono irrisolti conflitti e contraddizioni «che non riescono di certo a stare dentro la vecchia categoria di "riforma cattolica"». La lunga età della Controriforma si rivela dunque popolata da anime molto diverse – «cattolicesimi al plurale», scrive Gotor – talora capaci di porre qualche resistenza all’affermazione del centralismo romano, le cui censure e manipolazioni inquisitoriali delle vite dei santi miravano a renderle funzionali al «totato papale», secondo la celebre espressione di Paolo Sarpi, conculcando gli stessi decreti del concilio di Trento proprio mentre se ne costruiva il mito di evento fondante, di svolta epocale nella storia della Chiesa, capace di reagire con vigorose energie riformatrici alla sfida della Riforma protestante.