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 2012  ottobre 29 Lunedì calendario

LA VISTA CORTA DEI PRIMI RADICALI

Curando questi testi di Mario Pannunzio e Leo Valiani sotto il titolo Democrazia laica. Epistolario, documenti, articoli (due volumi pubblicati dall’editore Nino Aragno), Massimo Teodori fornisce un contributo importante alla conoscenza delle vicende di un’area ideologico-culturale molto specificamente italiana la quale, come si sa, ha sempre visto al proprio interno un gran numero di personalità di rilievo, ma in complesso non ha mai avuto un peso politico adeguato.
Al centro dei due volumi sono la nascita nel 1956 del Partito radicale — della cui segreteria politica Valiani, che era già da tempo importante collaboratore del «Mondo» di Pannunzio, fece parte nei primi due anni per esplicita volontà di Pannunzio stesso — e la sua difficile vita fino alla crisi del 1962, che ne vide una decisiva trasformazione di natura e di indirizzo, con il passaggio in carico a un gruppo di «giovani» guidati da Marco Pannella. Di quel «primo» Partito radicale, nato, per dirla all’ingrosso, dalla confluenza di liberali di sinistra e azionisti di destra, Valiani, che durante la Resistenza era stato per l’appunto segretario del Partito d’Azione, fu esponente non solo autorevole ma, compatibilmente con il suo ruolo all’ufficio studi della Banca Commerciale, anche impegnato sul campo.
E proprio dai documenti della sua direzione riportati in queste pagine, tanto più se letti alla luce dell’oggi, emergono con chiarezza seppure indirettamente i motivi per i quali l’area di cui sto dicendo ha sempre avuto grande difficoltà a trovare un suo consistente spazio politico. Un conto, infatti, sono le qualità che deve possedere uno studioso o in genere un intellettuale, un conto tutto differente quelle di un dirigente politico. A Valiani, dotato in grandissima misura delle prime, mi sembra che invece mancassero in buona sostanza le seconde; e ho il sospetto che questo fosse il caso di parecchi suoi compagni di partito e d’area: allora, prima d’allora, e dopo. Sono frequenti ad esempio, nei suoi interventi e nelle sue relazioni, la tendenza a passare in maniera meccanica da presunti antecedenti storici alle situazioni attuali (si veda, per dirne una, l’idea, insistita, che l’Italia dell’incipiente centro-sinistra fosse alla vigilia di una fase giolittiana, addirittura che Giolitti — l’uomo del patto Gentiloni e della guerra di Libia ! — avesse «veramente fatto una politica radicale»); la propensione a definire la propria identità e il proprio ruolo politico non tanto in relazioni a esigenze, a richieste o a obiettivi specifici riferiti alla società, e da fare propri, quanto soprattutto come una sorta di virtuoso giudice-arbitro, di «vigile osservatore», scrive Valiani, dei comportamenti dei partiti maggiori, naturalmente buoni o cattivi a seconda che siano più o meno vicini ai desiderata del suddetto osservatore; la tendenza, ancora, a sorvolare sulle ragioni politiche profonde di fenomeni come «il malgoverno», a non ritenerle meritevoli della minima analisi, preferendo invece esaurire tutto nella condanna di tono morale.
Insomma è difficile sottrarsi all’impressione di un modo di far politica che alla fine risulta tutto chiuso ferreamente nella gabbia dei partiti, delle loro strategie come delle loro anche più miserevoli beghe interne; beninteso, con le ovvie simpatie e antipatie che ci si aspetta da posizioni come quelle terzaforziste. Per le prime la palma va naturalmente ai socialisti, sempre cercati e invocati come interlocutori ma, per esempio, senza mai compiere un’analisi di che cosa significasse l’ampio terreno ambiguamente in comune tra i propositi nazionalizzatori-pianificatori alla Lombardi, allora imperanti tra di essi, e quelli in tutto e per tutto analoghi sostenuti dai comunisti.
Sta di fatto, comunque, che dalle pagine di Valiani non sembra giungere alcuna eco dei grandi cambiamenti che proprio in quegli anni stanno scuotendo il Paese e ne stanno cambiando il volto (siamo nel pieno del miracolo economico). Nulla si sente della modernizzazione impetuosa, dei vasti fenomeni di democratizzazione che l’Italia ha iniziato a sperimentare e su cui invece di lì a poco il Pr di Pannella avrebbe abilmente puntato. Di questa vista corta mi sembra un prova significativa il giudizio che viene dato della Democrazia cristiana. Il gigantesco fatto storico — che potrà anche non piacere, ma che non per ciò cessa di essere reale — che la democrazia in Italia in tanto è stata resa possibile in quanto è stata tenuta a battesimo dal partito cattolico, è virtualmente passato sotto silenzio, non affrontato mai in tutta la complessità di questioni che esso dovrebbe porre proprio a dei democratici tanto più se «laici» (memori della circostanza, magari, che nel 1948 non pochi dei loro amici in nome del laicismo stavano per consegnare la suddetta democrazia alle cure del Fronte popolare). La Dc, invece, almeno in questi anni e con una parziale eccezione per De Gasperi, è sistematicamente equiparata ad un partito «conservatore e clericale»: giustappunto al fine, vien quasi da pensare, di non gettare la minima ombra sul senso del proprio autocompiacimento «laico».
Un libro, dunque, questo di Massimo Teodori, che serve a spiegare non poco, per la parte che lo riguarda, l’incapacità di rinnovarsi che ha condotto a un virtuale esaurimento tutte le culture storiche dell’Italia repubblicana. Tutte — anche quella della «democrazia laica», ahimé — cadute sempre più in un’autoreferenzialità incapace di vedere il nuovo e di prenderne le misure.
Ernesto Galli Della Loggia