Jenner Meletti, la Repubblica 29/10/2012, 29 ottobre 2012
RISO AMARO
MORTARA (Pavia)
C’ERA una volta un re. Si chiamava carnaroli ed era il monarca assoluto nelle cucine di mezzo mondo, quando la massaia della Valpadana o lo chef di New York volevano preparare un risotto davvero speciale. Ma anche questa monarchia è in crisi: nelle borse merci del riso, aperte un mese fa quando è iniziato il nuovo raccolto, il carnaroli è crollato come Wall Street nel 1929: 30-35 euro al quintale, contro i 60-63 euro dell’anno scorso. Il segnale è pessimo, e non solo per il bilancio di fine anno delle 4.659 aziende risicole italiane. Il crollo mette in discussione lo stesso futuro delle risaie, una delle più belle «invenzioni» dell’uomo. «Se non riesci a guadagnare nemmeno con il riso più buono del mondo — dice Giuseppe Ghezzi, presidente della Coldiretti di Pavia — capisci che non hai un futuro. E se i contadini abbandonano la risaia, scompare un habitat delicato e prezioso, con danni pesantissimi per tutti».
Sembrano ricamati da un gigante, i piccoli argini delle «camere » — così vengono chiamati gli spazi allagati delle risaie — nelle pianure lombarde e piemontesi. Finisce proprio in queste ore, con le ultime mietitrebbia impegnate nel raccolto, un lavoro iniziato ad aprile, con la semina a «spaglio», con le macchine che spargono il seme nell’acqua, oppure sul terreno asciutto o nel fango.
Un sapere antico si unisce a tecniche moderne. Ormai da trent’anni le livellatrici con il laser hanno sostituito le pale con punta di ferro che riuscivano a pareggiare il terreno come un biliardo. Dai tre ai cinque centimetri d’acqua, e una cura continua perché la stessa acqua possa scorrere alla velocità giusta: né troppo piano, altrimenti si formano le alghe, né troppo forte, altrimenti si raffredda e danneggia il riso.
Il crollo del carnaroli può essere la slavina che si trasforma in valanga. Nella congiura contro il re dei risotti i «colpevoli» sono tanti e nemmeno si conoscono fra di loro. C’è l’industria italiana che tiene alti i prezzi alla vendita, ma ogni anno taglia il reddito ai
produttori. C’è la concorrenza internazionale pronta a caricare navi e a spedirle qui dove il riso, comunque, viene pagato meglio rispetto ai Paesi poveri. Ci sono anche «colleghi» che sono diventati nemici: il mais e la soia, ad esempio, hanno una resa — in
quintali e soldi — più alta del riso e stanno prendendo il suo posto. Già quest’anno, rispetto al 2011, sono stati persi 11 mila ettari di colture risicole.
Si può partire da un autogrill, per cercare di raccontare la crisi del riso. Sulla A1 a Parma la risiera Re Carlo di Albano nel vercellese mette in vendita due chili di
Riso Superfino Carnaroli a euro 8,90. Scadenza ad aprile 2013, dunque la produzione è dell’anno scorso, quando il carnaroli veniva pagato al produttore 60-63 centesimi al chilo (dal produttore al consumatore un salto di quasi il 700 per cento). «Non è un caso isolato», spiega Giuseppe Ghezzi. «Abbiamo fatto una ricerca di mercato nella grande distribuzione, e abbiamo scoperto che il riso arborio, che a noi era stato pagato ancora meno del carnaroli, l’anno scorso è stato venduto ai seguenti prezzi: Curti riso, 3,49 al chilo; riso Scotti, 3,97; riso Gallo 3,99 e riso Principe 4,09. La nostra è una filiera troppo lunga. Da noi ci sono ancora i mediatori, e soprattutto le grandi aziende che fanno cartello e decidono i prezzi senza tener conto che se il produttore non riesce a vivere, cambia mestiere».
Carlo Bisagno è un grosso produttore di Mortara ed è vice presidente della Coldiretti pavese.
«Se abbandoniamo le risaie, Milano diventerà la Venezia della Lombardia. Fra Vercelli e Pavia noi governiamo un sistema di acque delicato e importante. Se lasciassimo tutto, le acque finirebbero direttamente in falda, in una città dove già i garage sotterranei
vengono allagati». Non sarà facile fermare la crisi del riso. «Con questi prezzi troppo bassi, il produttore per pagare gli operai, le mietitrebbia e tutto il resto deve vendere subito, ad esempio, 7 mila quintali invece di 5 mila, così ingolfa il mercato e le quotazioni calano ancora».
Il mercato pazzo dei prodotti
agricoli da un anno all’altro «lancia » un prodotto e poi lo deprime, quando i coltivatori hanno già seminato sperando in un buon guadagno. L’anno scorso — il 4 novembre alla borsa di Mortara — il mais era quotato 18,5 euro al quintale e quest’anno — il 19 ottobre — è salito a 23. La soia è passata da 33,5 euro a 50 euro. «Questo significa — dice Giuseppe Ghezzi — che molti coltivatori lasceranno la risaia. Se il mais viene pagato poco meno del carnaroli e la soia quasi il doppio, tenendo conto che di riso pregiato ne produci 45 quintali all’ettaro e di mais 130 quintali, perché continuare a faticare nell’acqua? Ma le risaie non si possono lasciare senza pagare dazio. Se rompi un equilibrio cercato e costruito in decenni di esperienza, dopo devi ricostruire tutto».
Sta già cambiando, il paesaggio delle risaie. C’è anche chi produce mais per i biodigestori (producono gas poi trasformato in
energia elettrica) che utilizzano tutta la pianta, non solo le pannocchie. Il mais viene pagato quattro euro al quintale, ma con fusto e foglie si arriva a una produzione di 600 quintali all’ettaro, 2.400 euro contro i 2.250 del riso, che inoltre richiede almeno il doppio di lavoro e di spesa. Una buona alternativa sembra essere la coltivazione del triticale, un ibrido fra segale e grano tenero, che viene seminato dopo la raccolta del riso e raccolto ad aprile, lasciando il terreno libero per la nuova semina del riso.
«Nostro primo impegno — dice Paolo Carrà, presidente dell’Ente nazionale risi — è comunque difendere la risaia. In tanti siti le colture alternative non sono possibili. Le Baragge vercellesi e biellesi un tempo sembravano la tundra siberiana e lì le risaie hanno portato lavoro e reddito. Nel Delta del Po la coltivazione di riso serve a fermare la risalita del sale nel nostro grande fiume.
Adesso che inizia la nostra stagione delle piogge, vediamo quanto preziosa sia la presenza dei coltivatori di riso, che tengono sgombri i canali e sanno dove mandare le acque eccedenti, senza quei “tappi” che tanti disastri hanno provocato
nel nostro Paese».
Ma per il riso italiano (1.564.377 le tonnellate prodotte, pari al 52% del riso europeo, ma una briciola — 0,30 per cento — rispetto al prodotto mondiale) sarà dura resistere ai competitor internazionali. «In prima fila — dice Paolo Carrà — ci sono l’India,
che è il secondo produttore
del mondo dopo la Cina, e il Vietnam. Questi Paesi stanno trattando con l’Ue per poter esportare riso a dazio zero. Ora anche il Myanmar, l’ex Birmania, è rientrato nei Paesi Eba, che possono esportare tutto eccetto le armi, e sarà un forte concorrente». Nel 2011 l’Italia ha perso i mercati della Siria e della Turchia, conquistati dagli Stati Uniti (più 375 mila tonnellate) e dall’Egitto (più 700 mila tonnellate).
«Gli industriali dell’Europa del nord — racconta Giovanni Daghetta, presidente della Cia, confederazione degli agricoltori italiani di Pavia — prima accoglievano a braccia aperte il riso grezzo a basso costo che arrivava da lontano, per poterlo lavorare nelle loro aziende. Ma già stanno cambiando idea. Solo quest’anno sono infatti arrivate in Europa 150 mila tonnellate di riso in piccole confezioni destinate direttamente ai supermercati, tagliando il lavoro delle industrie
europee». Il presidente della Cia è anche responsabile del Comitato consultivo per il riso della Commissione europea. «Noi produttori italiani dobbiamo fare anche autocritica. Dieci anni fa producevamo 300 mila tonnellate di carnaroli, ora siamo
arrivati al milione. Ma questo riso e l’arborio sono gli unici che, per la loro qualità, non hanno concorrenti nel mondo. Organizziamoci meglio: non possiamo rinunciare a questo nostro tesoro». Solo così il re del risotto potrà tornare un giorno
sul suo trono.