Antonio Ranalli, ItaliaOggi 29/10/2012, 29 ottobre 2012
HOTEL, OCCHIO ALLE RECENSIONI ON LINE [È
guerra legale a chi utilizza la rete per dileggiare gli esercenti] –
Si è aperta la guerra sulle recensioni on line su ristoranti e hotel. I titolari degli esercizi pubblici chiedono chiarezza e si battono contro l’anonimato dei commenti inseriti su portali tipo TripAdvisor, punto di riferimento per i consumatori che vogliono orientare le proprie scelte su alberghi e ristoranti.
Secondo la Federazione italiana pubblici esercizi, una recensione su tre sarebbe falsa. Tanto che alcuni esercenti minacciano di adire alle vie legali contro i portali.
Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, TripAdvisor è stato citato in giudizio dal Grand Resort Hotel & Convention Center, un albergo del Tennessee, che è stato collocato al primo posto tra gli «America’s Dirtiest Hotels 2011» (alberghi più sporchi degli Stati Uniti). Secondo la proprietà la classifica pubblicata dalla community, frutto di affermazioni false e giudizi non veritieri, avrebbe creato un danno irreparabile alla propria attività. Inoltre, sempre secondo la struttura alberghiera, TripAdvisor avrebbe posto in essere una indebita intromissione nel business del Grand Resort Hotel rovinandone la reputazione. Sulla base di queste premesse la struttura alberghiera ha chiesto alla Corte del Tennessee di condannare TripAdvisor a un risarcimento danni quantificato in 5 milioni di dollari e ad una ulteriore sanzione punitiva. Ma il giudice ha rigettato le richieste e, pur riconoscendo che non tutte le opinioni sono automaticamente protette dal Primo Emendamento, ha spiegato che una persona di media ragionevolezza è in grado di comprendere che la classifica degli hotel più sporchi è frutto di una serie di opinioni personali e non rappresenta una rappresentazione oggettiva dei fatti, in altre parole riesce a distinguere ciò che è «intrinsecamente soggettivo» da ciò che è «oggettivamente verificabile».
Si tratta quindi della sintesi di milioni di utenti e non può essere ritenuta diffamatoria.
E in Italia? «Le false recensioni online, così come la creazione di false identità o falsi gruppi di discussione e simili, possono costituire atti di concorrenza sleale a vario titolo», spiega l’avvocato Elena Martini dello studio Callegari & Martini Avvocati. «In Italia il tema è già stato affrontato in alcune occasioni dalle sezioni specializzate in proprietà intellettuale: ad esempio il Tribunale di Torino ha rilevato il possibile uso illecito di Facebook da parte di chi crei gruppi o identità fasulle, ciò che può costituire concorrenza sleale sia se viene effettuato per screditare un concorrente, sia se (come in quel caso) per appropriarsi dei pregi del concorrente e creare confusione tra la propria e la sua attività, magari utilizzandone, e quindi violandone, addirittura anche il marchio. In situazioni del genere la società danneggiata può certamente agire in giudizio per ottenere l’inibitoria della condotta illecita ed il risarcimento del danno.
Il problema è più che altro a volte, in particolare nel caso delle recensioni e/o pagine denigratorie, quello di riuscire a provare in giudizio che esse sono pilotate dal concorrente anche quando questi non compaia direttamente ma agisca attraverso un terzo «intermediario».
Per la Fiepet, Federazione dei pubblici esercizi di Confesercenti, è necessario approfondire il dibattito nel merito del rapporto con TripAdvisor, ricercando soluzioni efficaci e condivise dagli operatori, riguardo i problemi che, comunque, la gestione dei social media pongono agli imprenditori. «Per albergatori e ristoratori, la valutazione negativa, se dotata dei requisiti di veridicità e continenza, «in sé non integra alcun illecito», spiega l’avvocato Luca Egitto di R&P Legal, «Il problema però non è la denigrazione in quanto tale ma il fatto che dietro alla valutazione negativa non vi sia un cliente effettivo dell’esercizio commerciale ma un «troll» o semplicemente un mitomane o, peggio, una persona specificamente dedita ad attribuire connotati negativi ad un ristorante che non ha mai frequentato al fine di arrecare deliberatamente un danno a questo o al fine di favorire un terzo mediante tale denigrazione.
La condotta complessiva è più articolata perché si consuma su una piattaforma di un provider di servizi che ha come core business proprio la valutazione di hotel e ristoranti e che utilizza i contenuti valutativi degli utenti del proprio sito perché il suo servizio si basa proprio sulla diffusione delle recensioni di tali utenti. Pertanto vi può essere una condotta lesiva diretta, da parte dell’utente che pubblica una recensione falsa, e una ipotetica, indiretta ed omissiva, da parte del gestore del sito se non verifica deliberatamente la genuinità dei messaggi o non li rimuove dinanzi all’evidenza dell’illecito».
Tra le ipotesi più complesse c’è quella di un concorrente del ristoratore che simula di essere un cliente, che rappresenta una forma di concorrenza sleale o di pubblicità illecita. «L’ipotesi che potrebbe essere purtroppo quella più verosimile», prosegue Luca Egitto, «è quella di una condotta articolata tra più persone che creano la «malattia» per poi proporre la «medicina», ossia creano artificialmente un fenomeno denigratorio «virale» (tipico dei social network e della comunicazione su internet) per poi proporre alle vittime (i ristoratori) un «antidoto» ossia una contro-offensiva di recensioni false ma di contenuto positivo. In questo caso possono configurarsi i reati di truffa ed estorsione. Ovviamente la questione è resa estremamente complicata dal fatto che le utenze che pubblicano i commenti sono per definizione anonime o anonimizzate e qui entra in gioco il gestore del sito, che su questo aspetto gioca tutto il suo core business. Il gestore del sito genera i propri ricavi proprio dalla pubblicazione delle recensioni anonime e la sua posizione potrebbe diventare problematica se una parte di questa attività economica si rivelasse dipendente dalla pubblicazione di messaggi illeciti».
Ci sono però problemi di tipo giuridico e pratico. «I primi», spiega Luca Egitto, «riguardano la giurisdizione (non mi risulta che il gestore in questione abbia un qualche radicamento in Italia) e l’inquadramento di attività e comunicazioni assolutamente nuove in categorie codificate come l’illecito aquiliano, la concorrenza sleale o la pubblicità ingannevole. I problemi pratici riguardano principalmente la possibilità di individuare l’autore dei messaggi e, laddove il gestore del sito accettasse di introdurre un sistema di pre-filtraggio, una modalità di verifica dell’avvenuta visita alla struttura ricettiva come presupposto per la pubblicazione della recensione».
L’avvocato Gabriel Cuonzo dello Studio Trevisan & Cuonzo pone un’interessante osservazione che riguarda invece gli esercenti che si appoggiano al web per inserire commenti positivi a proprio favore, inserendosi quindi nel contesto della pubblicità ingannevole. «La questione è se il comportamento del ristorante e albergatore che usa un’agenzia per diffondere messaggi positivi su se stesso (come avviene nella maggioranza dei casi) costituisce un illecito», spiega Cuonzo. «Oggi molte imprese hanno una web agency che si occupa della tutela dell’immagine dell’impresa e che pubblica sul web contenuti positivi. Questa cosa andrebbe regolata perché a nostro avviso costituisce una falsificazione della percezione dei consumatori. Nel diritto italiano, in base al codice del consumo, si tratta di una pratica scorretta da parte dell’esercente. Ci potrebbe essere una responsabilità dell’agenzia che viene usata per fare queste cose, in quanto soggetto che collabora nell’illecito, ma resta da capire se poi il portale possa essere responsabile dei messaggi che vengono pubblicati. Noi riteniamo che la responsabilità sia nella misura in cui il portale abbia previsto, secondo la direttiva comunitaria, tutte le procedure necessarie utili a rimuovere i contenuti illeciti. Se il portale riceve tempestiva comunicazione di aver pubblicato una recensione falsa allora deve rimuoverla. Ci sono poi dei software e dei protocolli che prevedono che chi fa la recensione dia prova di aver effettivamente visitato il locale mostrando ad esempio una ricevuta fiscale. La responsabilità del portale è molto più complessa nel momento in cui usa tutti questi accorgimenti».
Secondo Gabriel Cuonzo i messaggi diffamatori realizzati attraverso web agency sarebbero nel complesso più rari. «In questo caso», conclude, «c’è una diffamazione commerciale ed un illecito concorrenziale. Invece, una persona fisica che va nel locale o si inventa di essere andata nel locale ed invia un messaggio non genuino perché non ha avuto un’esperienza di consumo, può andare incontro alla diffamazione. Però il caso non è più rilevante dal punto di vista della concorrenza sleale perché a pubblicare il messaggio scorretto non è un soggetto che fa impresa. Anche dal punto di vista pratico diventa molto complicato per l’impresa difendersi».