Arianna Finos, la Repubblica 27/10/2012, 27 ottobre 2012
LA SVOLTA DI OLIVER “DAL COLLEGIO AL VIETNAM LE MIE TAPPE DELLA RIVOLTA”
Da ragazzino ero un conformista». Oliver Stone, il provocatore per antonomasia, l’autore più polemico e controverso di Hollywood, è la dimostrazione vivente che ribelli non si nasce, si diventa. E, soprattutto, che ribellarsi fa bene alla vita. Si racconta in una giornata di sole, seduto nel giardino di un albergo al centro di Roma. Sul blazer blu ha appuntato il cammeo in bianco e nero di una sorridente ragazza d’altri tempi. A 66 anni ripensa con triste tenerezza al se stesso bambino, padre broker e madre casalinga di origine francese. I miei hanno divorziato quand’ero adolescente. A quattordici anni sono finito in collegio e da allora non ho più avuto il calore di una famiglia. Sono passato dalla scuola al Vietnam». L’esercito è il padre, la patria, la famiglia. Il regista si descrive come un cuore sensibile, nascosto dentro la corteccia forgiata dalla guerra.
«Sono partito volontario per il Vietnam. Ho sparato e sono stato ferito due volte. Ma qualcosa in me si ribellava all’idea dell’uomo contro uomo, alla brutalità del conflitto». Qualche settimana fa Stone ha postato su facebook alcune foto «ritrovate di recente» che lo ritraggono in uniforme e a torso nudo, giovane e bello, in Vietnam, affiancato da altri soldati, perlopiù di colore. Dalla guerra Oliver Stone si è portato appresso una medaglia di bronzo al valore e profonde cicatrici psicologiche. Malgrado questo è rimasto fedele all’indottrinamento: «Non sono mai stato un fascista, ma un repubblicano convinto dei valori conservatori, sicuro che il comunismo fosse il nemico». Poi, il grande cambiamento: «Il punto di svolta è stata la strategia di Reagan in Centro America. Mi ha fatto arrabbiare. È per causa sua che ho cambiato in modo radicale il mio punto di vista. Ho avuto voglia di raccontare la verità. L’altra verità. Così è nato Salvador». E poi è venuto il tempo di chiudere i conti con il passato. Lo ha fatto con Platoon e Nato il 4 luglio: sotto il segno del giorno dell’Indipendenza americanail figlio si è ribellato. Stone è diventato il cantore scomodo d’America. Un’esplosione di energia creativa e polemica. Anche lo stile di vita dell’uomo è a lungo trasgressivo. Alcol e droga, un arresto. Tanto virtuoso alla macchina da presa, quanto pronto a temi incendiari: il Vietnam, la politica interna (Jfke W.), il potere dei media (Assassini nati), l’alta finanza (Wall street e Il denaro non dorme mai), lo sport (Ogni maledetta domenica).
Per molti la verità abbracciata da lui diventa partito preso. Faziosità. I documentari su Fidel Castro e Chavez, secondo i critici Usa fin troppo accondiscendenti. «Ogni mio film è frutto di una preparazione maniacale. Le teorie che racconto sono di esperti che le hanno scoperte ben prima di me. Io credo di avere la capacità di drammatizzarle, di renderle appassionanti per il pubblico».
La sua filmografia vede undici candidature all’oscar (tre vinti) ma anche flop clamorosi: Alexander, costato 155 milioni di dollari, all’esordio in patria ne ha incassati 10. Non è uno che ispira simpatia, Oliver. «Ho sperimentato sulla pelle la ferocia e il pregiudizio di critici e opinionisti», racconta. «Non è facile, specie da giovane, ritrovarti additato come bugiardo, complottista, mistificatore. Sono cose che ti mandano fuori di testa. Poi , anche se paghi dei prezzi alti, impari a difenderti». E lui sa bene come farlo: «Sono uno di quelli vuole avere ragione, che nelle discussioni s’infiamma». Un rompiscatole, insomma. Hollywood l’ha marginalizzato. «Non sono fatto per le feste piene di gente che parla di cose di cui non sa niente. Le conversazioni sul cinema dopo un po’ stufano. Ci vogliono le idee. Perciò me ne sto da solo a Washington, alla ricerca di nuovi talenti, idee, storie».
La passione per la verità, la sua verità, ha sottratto tempo ed energie agli affetti: «Non so se sono stato un buon padre, se sono stato la figura giusta per i miei figli. E quanto loro abbiano risentito della campagna mediatica contro di me». Di figli ne ha tre: Tara, Michael Jack e Sean. L’ultimogenito ha seguito le sue orme diventando regista, e sembra averne ereditato anche un po’ del temperamento: dopo un recente viaggio in Iran, si è convertito all’Islam. «I miei figli mi hanno reso felice,
mi hanno insegnato ad allontanare la sofferenza e cercare la felicità». Il calore della famiglia Stone oggi lo riconosce e lo va a cercare: fa tenerezza la foto su facebook della madre, in turbante rosa. «Guardando i libri di scuola dei miei figli ho scoperto che i concetti sono gli stessi di quelli dei miei tempi: l’America al centro del mondo, noi siamo i buoni». Stone è sostenitore di Barack Obama, ma ovviamente il suo «è un supporto critico». Ammette però che «Romney significherebbe tornare ai tempi bui dell’era Bush».
In sala in questi giorni c’è l’ultima fatica, Le belve (il titolo originale è Savages, selvaggi), tratto dal romanzo di Don Winslow. Due amici californiani, uno ex soldato l’altro chimico, condividono la stessa ragazza, O., e una fiorente coltivazione di marjiuana di ottima qualità. «La californiana è la migliore erba del mondo», ammicca Stone. I due devono combattere contro un cartello messicano del narcotraffico che prende in ostaggio la ragazza. «C’è una scena nel film in cui la bionda e dolce O. evoca un mondo in cui vivere come selvaggi, senza regole legali, sociali, morali», e mentre lo dice, Stone sembra pensare a una gioventù libera, pacifica e ribelle, che non ha avuto. Il suo pensiero è per le nuove generazioni: «È per loro il mio documentario The untold history of United States, dieci puntate sulla storia americana. Ricostruzioni ineccepibili preparate con l’esperto Peter Kuznick. Chi mi accusa di essere fazioso si dovrà ricredere. Spero che i ragazzi guardandolo imparino a ribellarsi alle versioni ufficiali». Il regista svela l’ultima curiosità prima del saluto. Si tocca il bavero della giacca: «Questa spilla? È la foto di una mia fidanzata di tanto tempo fa». Che non vuole dimenticare. Ribelle per sempre, ma con più dolcezza.