Alessandro Penati, la Repubblica 27/10/2012, 27 ottobre 2012
MERKEL ALLA GUIDA DI UNA VOLKSWAGEN
In Europa è scoppiata la guerra dell’auto. Una guerra che Marchionne, a onor del vero, aveva indicato quale primo problema di Fiat; e che sarebbe ingenuo pensare di combattere solo con nuovi modelli. Alle origini della guerra, l’eccesso cronico di capacità produttiva in Europa. Un problema che la crescita esplosiva delle economie emergenti, e il conseguente aumento della domanda di auto in quei Paesi, e la stagnazione in Europa, ha aggravato. Soprattutto per i produttori europei di auto “di massa’, dai margini ridotti (rendono il trasporto poco economico), e maggiormente esposti alla concorrenza asiatica. Quelli di fascia alta, Bmw e Mercedes, ne sono in parte immuni.
Il problema dell’eccesso di capacità è esploso con il crollo dei consumi del 2008. Gli Usa hanno preso atto che l’industria nazionale poteva sopravvivere
solo grazie a un rapido e drastico ridimensionamento. Così la Ford ha tagliato il 25% dei siti produttivi e il 40% della forza lavoro in America. GM e Chrysler sono fallite e lo Stato è intervenuto, non per “salvare” posti di lavoro, ma per facilitare ridimensionamento e ristrutturazione, subordinando la propria azione a chiusure (12 stabilimenti) e forti tagli occupazionali. Oggi il settore auto Usa è efficiente e redditizio.
L’Europa, invece ha preferito rinviare. Tutti i governi europei hanno affrontato la crisi drogando il mercato con incentivi e sostenendo finanziariamente la propria industria automobilistica. Nell’illusione che, con la ripresa, tutto sarebbe tornato come prima (illusione in cui si era cullato anche Marchionne, con il suo piano Fabbrica Italia). Ma il problema è cronico. E l’attuale recessione, riportando la domanda di auto in Europa ai livelli di 20 anni fa, lo ha fatto esplodere. Quando un settore si ridimensiona, non tutti i produttori lo fanno proporzionalmente. I più forti cercano di avvantaggiarsi a spese dei più deboli, alcuni dei quali soccombono. Ed è guerra. Gli americani Ford e GM (Opel) si ridimensionano anche in Europa: Ford, ceduta Volvo, chiuderà Genk in Belgio (4300 dipendenti) e, dopo 100 anni, cessa di produrre in Gran Bretagna. GM ha chiuso Saab, chiuso Anversa (2600 dipendenti) e chiuderà la storica fabbrica di Bochum (3100 dipendenti) quando la Zafira uscirà di produzione.
Renault, avendo lo Stato azionista, non può chiudere stabilimenti e procrastina, sussidiando la produzione domestica con gli utili di Nissan (75% del totale nel 2012) e le auto a basso costo in Romania e Marocco. Fiat usa Chrysler e il Brasile per tenere aperti i siti italiani. Strategie di breve respiro. PSA (Peugeot), la più esposta in Europa, per non soccombere chiede aiuto allo Stato, che garantisce 7 degli 11 miliardi di nuovi crediti accordati dalle banche. Ma invece di facilitare l’inevitabile ristrutturazione del gruppo, lo Stato la ostacola, esigendo in cambio di rinegoziare la chiusura già decisa di siti in Francia (6100 dipendenti), e un ruolo nella gestione. Eppure Peugeot ha sfornato più nuovi modelli di tutti.
Chi beneficia di questa guerra è Volkswagen che ne approfitta per spazzare i più deboli e consolidare il predominio europeo nel segmento “di massa” con una politica aggressiva di prezzo e prodotto. Può farlo perché questo segmento è per lei marginale: nei primi 9 mesi del 2012 la quota di vendite in Francia, Italia e Spagna è per lei irrisoria (appena 7,5% del totale); e fa utili con Audi e Porsche, il cui risultato operativo (6,8 miliardi) è quasi triplo rispetto a quello delle auto VW.
I governi europei dovrebbero aiutare l’auto a ristrutturarsi: ma non sussidiando la capacità in eccesso e le aziende, o interferendo nella gestione; bensì assorbendo i costi sociali delle ristrutturazioni, e cercando spostare la capacità dove è maggiormente produttiva. Ma non si può fare: non ci sono le risorse e la Germania impone il pareggio dei conti pubblici tout-court, anche se deroghe in caso di tagli alle imposte e ristrutturazioni di settori in declino sarebbero utili per la crescita e l’uscita dalla crisi. Ancora una volta, chi ne beneficia è l’industria tedesca.