Gianni Santucci, la Lettura (Corriere della Sera) 28/10/2012, 28 ottobre 2012
I DUE MAGLIONI DI D’ARTAGNAN
«Almeno ho un lavoro stabile». Sorride. La maschera di cerone si arriccia intorno alle labbra. Ma c’è poco da fare ironia, questo lo sa. Arriva l’inverno. E quella specie di «lavoro stabile» impone comunque la posizione immobile. «Metto un paio di maglioni sotto e via». D’Artagnan costretto a imbottirsi come l’omino Michelin. Perché sotto il Duomo, tra meno d’un mese, il freddo inizierà a picchiare. E il costume d’epoca va rinforzato. Strati di lana occultati sotto stivaletti, galosce, pantaloni a sbuffo, palandrana verde/marrone, fascione sul petto, bavero di pizzo, guantini di cotone, parrucca grigia e riccioluta, cappello a tese larghe di forma triangolare. Spiega: «Il costume è originale». Una punta d’orgoglio. «Si compra in Romania». Perché è da lì che viene questo ragazzone col volto paffuto e spalmato di crema. Ionut, vent’anni. Per tre (o sei) ore al giorno è la statua del moschettiere. Ravviva le foto dei turisti. Maschera solitaria nella city di Milano. Nel resto del tempo si infila in metrò e se ne torna a casa, periferia della periferia della città. Come fanno la «sfinge», Napoleone, Michael Jackson e il re con corona ed ermellino (non identificabile la nazione di cui sarebbe il sovrano). È la piccola truppa (una decina) di statue viventi milanesi, distribuite tra piazza San Babila e il Castello Sforzesco. Più che arte da viandanti, è vita di strada coperta di orpelli. Al confine con l’elemosina in costume. Questua legalizzata. Anche questo è lavoro nella Milano dell’Expo.
Il trucco
Ore dieci del mattino. Lunedì e mercoledì della scorsa settimana. Scena che si ripete. Piccola strada a venti metri dal Duomo. Via Ugo Foscolo, quasi un vicolo, sul retro della Galleria Vittorio Emanuele. Le statue viventi si imbellettano in questo rifugio incastonato tra le architetture antiche della città. Sotto i portici, da una parte il vecchio gabbiotto che vende biglietti della lotteria, dall’altra il retro del dehor del Burger King. Questo è il camerino. Pubblica via, privatissimo luogo. Anfratto della metropoli: tutti ci passano accanto, nessuno butta là un’occhiata. Ionut entra come Ionut e uscirà D’Artagnan. Trascina il suo trolley nero. Sotto il braccio una cassa di legno verniciata di bianco: il piedistallo. Jeans e felpa e il costume in valigia. Può iniziare la vestizione. A dire il vero, il risultato assomiglia più a un gentiluomo del Settecento che al moschettiere di Luigi XIII. Perdono, ma perché D’Artagnan? «È bello, è francese. Piace ai turisti». Scelta per la vita? «Macché, ogni tanto bisogna cambiare. Altrimenti la gente si stanca». È la reincarnazione perpetua della maschera. Sempre stato moschettiere? «Prima ero Dante Alighieri». Velluti bordeaux? «Macché... tutto bianco. Molto elegante. Ora non mi distrarre». Si passa al trucco.
Dalla valigia spunta un tubo di crema bianca. Sembra un dentifricio formato famiglia. «È a olio, si appiccica alla faccia. La rovina. Per pulire poi ti devi strofinare. Serve l’acetone per tirarla via». Ogni buona statua sfoggia il suo volto di porcellana opaca. Ionut sta seduto su un gradino del Burger King, il trolley davanti, uno specchietto rotondo appoggiato ai manici. Potrebbe far da solo, non è un maquillage per la Prima della Scala. Ma si avvicinano due zingare, gonnelloni a fiori e bambinetto al seguito. Convenevoli, confidenze. Una si siede e aiuta Ionut a diventare D’Artagnan. Gli spalma le guance. Strana situazione. La tribù dell’elemosina si accosta al gruppo delle statue umane. Collaborano, forse.
In questo il cuore della metropoli postmoderna sembra riallacciarsi con la Milano antica. Quella manzoniana. Quando la piazza del Duomo raccoglieva perdigiorno, ladruncoli, verdurai, traffichini, ambulanti, barattieri, postulanti. Ed eccoli oggi, nella forma contemporanea: venditori di braccialetti colorati (senegalesi), venditori di mais per turisti (maghrebini), improvvisati fotografi con polaroid (ancora maghrebini), venditori di rose (bengalesi), ragazzini stravaccati che hanno bigiato la scuola (milanesi). Popolazione brulicante. Piccoli affaristi affannati in movimento perenne. E poi loro. Le statue umane: che al contrario stanno immobili, svettano, fanno l’unico lavoro che si possa ritenere tale (almeno secondo le regole comunali). Perché pagano il permesso per occupare il suolo pubblico. Spiega Ionut: «Siamo tutti romeni». Da San Babila al Castello, a Milano quella del mimo attonito è un’occupazione a monopolio di nazionalità. E anche questo sembra piuttosto strano.
Permessi e protezioni
Statue si diventa. Anche per via ereditaria. Domanda chiave: ma perché, tra tutti i lavori, tra tutte le possibilità, si finisce in costume su un piedistallo? «Lo faceva mio fratello — risponde Ionut —, ora lui è in Germania. E io ho preso il suo posto». Un barlume di passione artistica? «No: bisogno di soldi. Ho quattro fratelli piccoli in Romania». Ti piace fare la statua? «Preferirei lavorare come panettiere, ma non si trova niente». Per quanto ancora? «Spero di smettere presto». Nel frattempo, va avanti.
Ogni tre-quattro giorni un passaggio in Comune. Serve il permesso e si paga: intorno ai dieci euro. Autorizzazioni di tre ore in tre ore. E scelta della location, a seconda della disponibilità. Nella zona pedonale del centro di Milano ci saranno una ventina di posti: Duomo 1, 2, 3... corso Vittorio Emanuele 1, 2, 3, 4... via Mercato, Castello, via Dante e così via. A lavorare senza permesso si rischiano cento euro di multa. Regolarità apparente. Incrinata, di tanto in tanto, dalle leggi della strada. Si racconta di qualche pestaggio, di strane aggressioni, di artisti cacciati dalle posizioni più redditizie. Perché sotto ogni statua suona la moneta.
Offerta media: qualche euro. Omaggio variabile, fino a venti (li sborsa mercoledì mattina un turista francese che ha appena allestito un piccolo set con la sua ragazza e D’Artagnan in pose acrobatiche su un solo piede). A conti fatti, il moschettiere raggranella almeno un trenta-quaranta euro ogni tre-quattro ore di (quasi) immobilismo. Che diventano il doppio nei fine settimana. Approssimando un totale, il Pil di tutte le statue romene nel centro di Milano arriva a qualche migliaio di euro a settimana.
E allora, tenendo a mente il calcolo, si spiega meglio la scena avvenuta intorno alle 11 di martedì scorso. Ionut nel suo angolo/camerino di via Ugo Foscolo. Pausa durante il servizio. Una riavviata alla parrucca. Dal fondo della strada sbuca un ragazzo corpulento. Sui trent’anni, tuta blu, incedere spavaldo. Si blocca. Si informa. Rapida conversazione col mimo. Tra le battute in romeno si afferrano un paio di parole: giornale... intervista... «Amigo, per fare questo devi pagare». Perdono, ma lei chi è? «Cosa mi chiedi?». Chi sei? «Io faccio il re» (non si direbbe, o forse sì — se al re si dà il significato degradato di pappone). «Faccio il re, ho il costume, pagato duemila euro». E quindi? «Lui perde tempo adesso. Bisogna pagare». L’espressione del volto passa al minaccioso. E siccome la confederazione sindacale delle statue umane non risulta ancora costituita, questo (altrimenti ingiustificabile) interesse inizia a presentare qualche segnale di un piccolo sistema di sfruttamento.
Altro giorno e altra spia. Mercoledì mattina. Lo stesso personaggio, la stessa tuta blu indosso, parlotta per cinque minuti di fronte a un bar con due gitane in gonna a fiori. Poi si allontana. Telefona. Torna. Qualche minuto dopo arriva Ionut, e una delle due zingare presta la sua opera di truccatrice. A questo punto basta fare il semplice gioco di unire i puntini: le statue viventi del centro di Milano sono solo ragazzi romeni; occupano ogni posto; nessuno ha una pur vaga coloritura bohémienne da artista di strada; sono in rapporti con lo stesso tizio (il sedicente «re» in maschera) che in qualche modo coordina anche le donne rom. La sintesi potrebbe essere questa: occupazione della piazza più redditizia per l’elemosina in città, nei dintorni del Duomo. Rischi e controindicazioni del lavoro di strada.
Bulli e bastone
In ogni caso, D’Artagnan nega e s’accontenta. «Incasso, metto via quel che mi serve per vivere, e il resto lo mando alla mia famiglia». Per tornare a casa impiega quasi un’ora con i mezzi pubblici. Vive in una piccola strada alla periferia estrema della città, vicina al quartiere di Quarto Oggiaro. In un palazzo stretto tra il gomitolo di svincoli autostradali verso Torino e i binari dell’alta velocità. Bagno e tre stanze. Otto persone che si dividono le spese per gli ottocento euro d’affitto. Quando va e quando viene, dal trolley nero di Ionut spunta fuori solo il manico argentato del suo bastone di scena. Surrogato della spada che sarebbe prevista dall’iconografia classica del personaggio. Invece è un moschettiere disarmato. Anche quando è costretto a fronteggiare importuni, dispettosi e molesti.
E ne capitano, di guastatori. L’altra faccia dei turisti generosi, nello struscio milanese, sono le vocianti comitive di adolescenti del sabato. Un po’ in costume anche loro: capelli dritti a cresta e pantaloni stracalati sotto il sedere. Campioni dello scherno e dello sberleffo. Racconta Ionut: «Passano e mi fanno versacci, ogni tanto insultano, qualche volta arrivano da dietro e mi spingono». E tu? «Sopporto. Sono lì per lavorare, non voglio casini». Anche lui, d’altra parte, non incarna il prototipo di statua. Quando s’accorge che turisti e passanti non lo degnano d’interesse, inizia a muovere il bastone. Un colpetto sulla spalla di chi gli cammina vicino. Un sorriso aperto che suggerisce «Dai, monetina per il moschettiere». E questa, in sé, sarebbe una grave violazione per il codice del pietrificato. Ma nessuno sembra farci caso. Perché il lavoro sarà pure stabile, ma D’Artagnan non può stare sempre immobile: «Dopo un po’ mi fanno male le gambe».
Gianni Santucci