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 2012  ottobre 28 Domenica calendario

«FACEBOOK DISCRIMINA. E’ UN ASILO PER ADULTI»

«Le rivoluzioni e il potere di condividere; l’apertura come forza della nostra generazione; il passaggio dallo Stato alle imprese; il fatto che tutti possono diventare sviluppatori e il nostro modo di sostenere questo cambiamento; la nuova generazione di compagnie web; i giovani che diventano imprenditori». Ecco i principi-base di Facebook. A elencarli alla sua ghostwriter Katherine, detta Kate, è il fondatore del social network in persona, il ventottenne milionario Mark Zuckerberg. È la fine del 2009, Facebook è già la «big thing» del decennio. L’assistente originaria dell’Arizona chiede al giovane imprenditore cosa intenda esattamente per «aziende e Stati». «Voglio dire che se oggi sei davvero intenzionato a cambiare il mondo — risponde Zuckerberg —, la cosa migliore che puoi fare è fondare una compagnia». L’episodio è contenuto nel libro Dentro Facebook, in uscita in Italia per Fazi, scritto proprio da Katherine Losse (traduzione di Nicola Vincenzoni, pagine 288, 14,50), ex ghostwriter di Zuckerberg, che — poche settimane dopo il dialogo con il capo — decide di licenziarsi dall’azienda. Se cercate morbosità e rivelazioni piccanti su Mark Zuckerberg, Losse vi deluderà. Il libro è una finestra critica sull’anima e sull’organizzazione di una delle aziende più importanti del mondo, nonché la descrizione del disagio di una letterata catapultata in una realtà dominata dai tecnici. Raggiungiamo Losse, 36 anni, via Skype a Marfa, in Texas, una cittadina dove «la connessione costante di Internet e cellulari non serve un granché». Lì vive oggi la prima donna entrata in Facebook — un anno dopo la nascita del social network — con un dottorato in letteratura inglese.
Quando è stata assunta in Facebook non ha firmato alcun documento che la impegnasse a non rivelare informazioni sensibili sull’azienda?
«L’unico obbligo di non divulgazione riguarda i codici e i software usati da Facebook: i segreti tecnici della piattaforma. Il fatto che qualcuno possa divulgare la cultura aziendale, criticità comprese, non preoccupa minimamente i dirigenti».
Nel suo libro il social network emerge come un regno dove vige la dittatura degli informatici: le uniche competenze tenute in considerazione da Zuckerberg sarebbero quelle tecnologiche.
«Il piano dove lavorano i programmatori è considerato quello nobile dell’azienda. Mark utilizzava la parola "persone" solo quando si riferiva a loro. Gli impiegati non esistevano. Nella primavera del 2007 ripeteva continuamente: "Facebook è una compagnia tecnica". All’inizio non capivo la ragione: perché un’azienda che si occupa di relazioni e persone non si definisce "sociale"»?
Ha trovato una risposta?
«La tecnologia è il nuovo oro della California. Per Mark è l’essenza stessa dell’innovazione, in grado di giustificare tutto: mentre io passavo il tempo a farmi domande sulla privacy o sulla natura delle relazioni su Facebook, lui progettava insieme agli hacker nuovi tool e codici per potenziare il sito. Velocità e potenza erano le uniche cose che gli interessavano».
Crede che con la quotazione in Borsa siano cambiati i valori aziendali?
«Immagino che la quotazione li abbia costretti a una maggiore etica e responsabilità. Tuttavia Mark era ossessionato dall’idea di non perdere lo spirito originario del progetto, e credo sia ancora così».
Come definirebbe lo spirito originario di Facebook?
«Una compagnia di nerd che giocavano alla rivoluzione con il computer. Facebook è l’asilo a misura di adulti dell’era digitale».
Scrive che il mondo della Silicon Valley è ossessionato dalla giovinezza, dove «gli investitori entravano in competizione con gli stessi adolescenti che volevano assumere». È il lato oscuro dell’innovazione?
«In Facebook "lavoro" è considerata una parolaccia, roba da loser, perdente. La gente di successo gioca, e nella Valle vincente è sinonimo di giovane informatico. Io e i miei colleghi eravamo offuscati dalla ricchezza e dal potere che vedevamo lievitare davanti ai nostri occhi».
Sostiene che l’azienda che ha incontrato nel 2005 era molto simile al mondo di «Mad Men», la popolare serie tv ambientata nell’America degli anni Sessanta.
«Quando sono arrivata l’organizzazione della compagnia si rifaceva al modello reazionario di un ufficio anni Cinquanta, Sessanta. Il giorno del compleanno di Mark, nel 2006, ci arrivò una mail che chiedeva alle donne di indossare una t-shirt con il volto di Zuckerberg e ai ragazzi le ciabatte Adidas con cui il capo veniva regolarmente in ufficio».
Essere donna in un contesto del genere non deve essere stato facile...
«Il punto è che all’inizio eravamo davvero poche. La discriminazione, come ho detto, c’era per i non-tecnici e visto che la maggior parte di essi erano donne, subivamo più di altri l’indifferenza dei colleghi. L’unico momento in cui venivamo prese in considerazione era durante i party in piscina, per le foto da pubblicare il giorno dopo sulle bacheche».
Eppure lei è diventata la ghostwriter del Ceo, conquistando una scrivania al «piano nobile» dei programmatori informatici. C’entra qualcosa l’arrivo nel 2008 di Sheryl Sandberg, attuale direttore operativo di Facebook, considerata una delle persone più influenti al mondo?
«Appena arrivata Sheryl convocò tutte le donne che lavoravano in Facebook nel suo studio per un’indagine sulla condizione femminile in azienda. Provò a intervenire su alcuni comportamenti sgradevoli di colleghi. Poi, con il passare del tempo, diventò semplicemente una di "loro". Lo stesso è accaduto a me».
È il paradosso della tecnologia: un settore chiuso ed esclusivo che lavora per aumentare la partecipazione e la democrazia nel mondo. Crede che le cose stiano cambiando?
«Penso che la tecnologia stia diventando sempre di più una questione culturale. Accade anche grazie alla diffusione di massa di brand che veicolano valori oltreché prodotti e servizi. L’interazione con colleghi e utenti diventerà prioritaria nel futuro delle aziende hi-tech. Addirittura gli hacker saranno costretti a farsi delle domande sul loro lavoro».
Serena Danna