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 2012  ottobre 28 Domenica calendario

RIFARSI LA REPUTAZIONE

Il blog La verdad de Ryan Air non è mai stato tenero con la compagnia aerea low cost. Ma la flotta irlandese non è la sola ad avere problemi di cattiva reputazione online. Ce li ha pure il Papa, considerato freddo e «troppo tedesco». E Vendola: eterno outsider; Renzi: il Berlusconi di sinistra; Bersani: incapace di valorizzare la propria storia. La bad reputation digitale non risparmia nessuno. «Eppure — spiega Andrea Barchiesi, Ceo di Reputation Manager, l’agenzia che ha curato l’analisi del profilo in rete di Benedetto XVI e di numerosi politici italiani — può avere effetti drammatici sulla vita delle persone».
Barchiesi è un reputation cleaner, un professionista che personaggi noti, ma anche impiegati e giovani in cerca di lavoro, preoccupati della propria immagine su Facebook, chiamano per rifarsi la reputazione online. «Prima venivano da noi solo persone che avevano subito incidenti mediatici: diffamazione, vecchie notizie ancora accessibili. Ora viene anche chi coglie il valore di una buona notorietà in termini professionali — racconta Barchiesi —. C’è poi chi, licenziato per una ubriacatura documentata in rete, teme di non trovare un nuovo impiego, chi ha paura per il figlio perché i compagni di scuola potrebbero mostrargli su Google contenuti spiacevoli sul papà». È a questo punto che arriva il reputation cleaner. «Il mestiere consiste non solo nell’abilità di pulire la reputazione, mandando nella quarta pagina di Google i contenuti negativi — continua —. Si tratta di costruire una nuova identità digitale. Preferisco parlare di ingegneria reputazionale: noi progettiamo l’identità di una persona».
Per farlo servono almeno 10 mila euro e un team di professionisti: due ingegneri informatici, due esperti di comunicazione, due di marketing e un avvocato. Il lavoro prevede cinque fasi: analisi tramite software dedicati; strategia; elaborazione e diffusione di contenuti positivi attraverso profili Twitter, Facebook, video YouTube, pagine Wikipedia e post sui blog; rimozione di notizie vecchie, offensive, non aggiornate. L’obiettivo è occupare, anche grazie a tecniche di Seo (Search engine optimization) per migliorare la posizione di un sito, le prime tre pagine dei motori di ricerca perché «gli utenti non vanno oltre», spiega Simone Bonavita, cultore di Informatica giuridica presso l’Università degli Studi di Milano. Per cancellare le informazioni non basta camuffarle, alcune vanno de-indicizzate o rimosse. Ci vuole un’azione legale. «Nel web le cose si risolvono da gentiluomini — consiglia Bonavita —. Ogni intervento che si fa rischia di aprire un nuovo processo di cattiva reputazione, come quando una testata sceglie di pubblicare la lettera con cui si chiede la correzione di una notizia». Tra il team e il cliente si stabilisce un patto di massima fiducia. Perché rifarsi la reputazione è come rifarsi il seno: chi lo fa, non lo dice.
Un occhio esperto, però, come quello di Matteo Flora, fondatore di The Fool, start-up dedicata all’online reputation management, sa distinguere una reputazione con il «ritocchino». «Gli indizi sono molti — rivela — ma nessuno probatorio. Per esempio la presenza di numerosissimi articoli e profili "elogiativi" su decine di siti web, magari con date tutte molto recenti, o la differenza nella quantità di notizie prima e dopo uno scandalo». I segnali sono così evidenti solo quando la reputazione, proprio come un seno da maggiorata, è gonfiata a dismisura.
I cleaner improvvisati esagerano e rischiano lo Streisand effect, l’effetto boomerang, ottenuto dalla nota attrice quando tentò di far rimuovere alcune foto che divennero così molto popolari e virali. «È impossibile agire nei confronti di tutti gli utenti che diffondono un contenuto», spiega Marco Scialdone, avvocato. Meglio allora prevenire gli incidenti comunicativi piuttosto che curarne le conseguenze. Non basta, però, cercarsi su Google: «Ognuno di noi — continua Scialdone — ha un corpo fisico, ma una pluralità di corpi elettronici». Per proteggerli ci vuole lungimiranza. Perché Facebook è come un tatuaggio: certi status rischiamo di portarli addosso per una vita.
Solo pochi utenti, però, usano strumenti come «Me on the Web», pensato da Google per valutare se stessi in Rete, o modificano le impostazioni di privacy dei social network. Secondo Ralph Gross e Alessandro Acquisti, ricercatori della Carnegie Mellon University, esiste un problema di comportamento digitale. Chi scrive lo fa con poca consapevolezza e rischia di costruirsi una cattiva reputazione. «Nel tempo cambia la nostra percezione di ciò che è privato o pubblico e cambia la nostra idea di privacy. Il web invece — spiega Francesca Comunello, docente di Internet studies alla Sapienza di Roma — ha la memoria lunga». Tra qualche anno potremmo pentirci di un post scritto d’impulso. È accaduto a un’insegnante americana: «Aveva postato una foto mentre era in auto, ferma, con un bicchiere di birra in mano — racconta Barchiesi —. Non si capiva, però, che l’auto fosse parcheggiata. Sembrava guidasse bevendo. Così è stata licenziata». Avrebbe dovuto correre a rifarsi la reputazione, magari usando uno dei più recenti software semantici, utili a scovare online i contenuti personali e a ricostruire il contesto in cui sono generati.
Meglio, però, rivolgersi sempre a un esperto che sceglierà di curare o meno il caso. «Abbiamo preferito non occuparci di una ragazza — racconta Barchiesi —, di cui il fidanzato aveva postato foto intime. Lei ci ha chiesto di rimuovere solo quelle dove era venuta male. La vanità prima di tutto». Un motivo forse insufficiente per rifarsi il seno. Figuriamoci la reputazione.
Federica Colonna