Francesca Ronchin, la Lettura (Corriere della Sera) 28/10/2012, 28 ottobre 2012
LO SBALLO LEGALE - A
d anticipare il fenomeno, ci ha pensato il Dr. House, il protagonista della fiction tv, costretto a ingoiare manciate di pillole di idrocodone per convivere con un cronico dolore alla gamba. Una sorta di outing involontario che ha fatto del medico di Princeton una curiosa miscela di cinismo e umanità e soprattutto il caso più famoso di dipendenza da antidolorifici.
Parliamo di oppioidi, farmaci potentissimi, per lo più a base di ossicodone e idrocodone e che per cancellare il dolore vanno a colpire direttamente il sistema nervoso centrale rilasciando una sensazione di benessere ed euforia che nulla ha da invidiare a un derivato dell’oppio. Appartenenti al gruppo terapeutico della morfina, molti malati iniziano a prenderli per dolori cronici, da quelli associati a stati tumorali fino a quei mal di schiena che non danno tregua, ma poiché il potere di dipendenza è alto, il rischio è di non riuscire più a farne a meno. «Ti senti in cima al mondo senza però perdere il controllo di quanto ti accade — spiega Phil Wright della American Pain Society per la cura del dolore — ci si illude di poterci convivere, ma come con ogni droga, non è così».
Negli Stati Uniti c’è chi la definisce una nuova epidemia. Dal 1991 al 2010, il numero delle ricette di analgesici oppioidi sarebbe passato da 75 a 209 milioni, tanto da soddisfare, potenzialmente, l’80% degli americani, praticamente una confezione per abitazione. Non solo, secondo i dati del Center for Disease Control, una persona ogni 20, dai 12 anni in su, li utilizzerebbe per motivi non medici, in pratica per procurarsi quello che è a tutti gli effetti uno sballo legale e dall’appeal trasversale. A rendere queste pillole particolarmente gettonate, la promessa di un «trip» pulito e permesso dalla legge, lontano anni luce dalla fenomenologia della tossicodipendenza.
L’antidolorifico lo si tiene in tasca o nella borsetta come una normale pillola per il mal di testa. Lo usano la casalinga, il manager e soprattutto i più giovani perché i pusher, involontari, se li ritrovano direttamente in casa. Secondo la Substance Abuse and Mental Health Services Administration, nel 70% dei casi, gli under 20 reperirebbero gli antidolorifici grazie a mamma e papà. Se poi l’incursione nell’armadietto del bagno di casa non soddisfa, ci sono sempre Internet e il mercato nero di strada dove questi oppioidi stanno rimpiazzando perfino l’eroina, più difficile da reperire dopo il blocco della produzione di oppio in Afghanistan. Ma è soprattutto una questione di sicurezza perché «se la polizia ti trova i farmaci in tasca, non si finisce certo in prigione», spiega Jurgen Rehm, direttore del dipartimento di ricerca sociale ed epidemiologica presso il Center for Addiction and Mental Health di Toronto.
E così, oltre che tra professionisti e studenti, i farmaci oppioidi hanno iniziato a diffondersi capillarmente tra gli eroinomani di strada tanto da meritarsi il nome di «hillbilly heroin», droga dei poveri.
Nel 1995 è uscito sul mercato l’Oxycontin, il farmaco a base di ossicodone che da lì a poco è diventato un vero blockbuster. Prodotto dalla Purdue Pharma, in cinque anni è arrivato a vendite per oltre un miliardo di dollari. Nel mezzo ci sono stati una quarantina di congressi, una rete di oltre 5.000 medici e strategie per intercettare le fasce di popolazione più colpite da dolore cronico e quindi le utenze più inclini all’utilizzo di analgesici così potenti. Non solo, a decretare il successo di questa pillola, e a ricaduta dei vari cloni, sarebbe stata in particolare una campagna pubblicitaria. Il caso ha dato vita a una class action che ha visto la Purdue ammettere la propria colpevolezza e quindi sborsare 646 milioni di dollari per risarcire i danni ai consumatori. Al centro della querelle, l’aver dichiarato un rischio di dipendenza minore dell’1% quando invece si sapeva che poteva raggiungere il 50 per cento.
L’abuso di antidolorifici è un fenomeno che provoca quindicimila morti da overdose all’anno, molti di più rispetto a quelli causati da eroina e cocaina messe insieme. Del resto i referti medici di celebrità morte di recente parlano chiaro: da Heath Ledger a Brittany Murphy, da Anne Nicole Smith a Michael Jackson, tutti avevano in corpo tracce di idrocodone e ossicodone tanto che il consumo di «painkillers», antidolorifici, tra i giovani sarebbe ormai la prima causa di morte. Una strage progressiva che ha portato le autorità competenti come Fda ed Health Canada a correre ai ripari adottando politiche più restrittive per contenere la diffusione di questi narcotici. Tra le misure adottate una maggiore tracciabilità delle ricette mediche, il divieto di surplus produttivi in grado di alimentare il mercato nero e lo sviluppo di formulazioni di nuova generazione che renderebbero le pillole più difficili da inalare o iniettare così come piace ai tossici in cerca di uno sballo più rapido. «È un fenomeno più grande di noi perché è esploso da poco, di pari passo con il progredire della scienza medica — spiega Allan Gordon, direttore del Wasserman Pain Center del Mount Sinai Hospital di Toronto —. Mentre malattie come il cancro o la sclerosi multipla hanno una lunga tradizione e associazioni storiche, fino a 30 anni fa il dolore non era nemmeno una branca della medicina. Ha dovuto essere, per così dire, fabbricato».
Man mano che i pazienti parlavano di dolore, ci si rese conto che tra neuropatie diabetiche, stati tumorali e mal di schiena, c’era un quadro comune a circa il 25% della popolazione. «Inizialmente questi oppioidi venivano somministrati solo ai pazienti gravi — continua Gordon — ma quando se ne è compresa l’efficacia, le case produttrici hanno iniziato a spingere per un più ampio utilizzo, dai casi di epilessia e depressione fino al classico mal di denti. È vero che molti si rivolgono a questi farmaci per sballare — spiega Gordon — ma a chi soffre davvero, hanno cambiato la vita».
Mentre in Nord America si diffondono le pratiche di accertamento del rischio, per intercettare quel 10% della popolazione che sarebbe ad alto rischio di dipendenza, dopo anni di vincoli burocratici il riconoscimento del dolore cronico sta iniziando a farsi strada anche in Italia. A due anni dall’approvazione della legge 38 sulle terapie del dolore, le prescrizioni di analgesici oppioidi hanno registrato una crescita del 30% passando da 3,6 milioni di confezioni vendute a 4,7 milioni. «Senz’altro un passo importante — spiega Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento delle dipendenze della Asl di Milano — ma bisogna monitorare per impedire che anche da noi si verifichi quello che sta succedendo negli Stati Uniti».
In Italia i più gettonati sono ancora antidepressivi e ansiolitici ma gli antidolorifici sono in crescita. «I farmaci si stanno sostituendo alle droghe tradizionali — sottolinea Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento politiche antidroga — sono legali e fanno molta presa sui giovani. Nel 56% dei casi sono gli stessi genitori a offrirli ai figli, in particolare le benzodiazepine per sopportare stress da esame o incontri amorosi».
Quello che più spaventa, conclude Serpelloni, è la tendenza all’automedicazione, al fai da te, tanto che si finisce per non capire più cosa stiamo medicando. Anne Rochon Ford, direttrice del Women and Health Protection Network, segue da anni lo sviluppo del fenomeno a partire da Stati Uniti e Canada: «Quello che mi colpisce è come antidolorifici nati per curare il dolore fisico siano ormai utilizzati per rispondere al dolore psichico, al male di vivere, che è quello che alla fine tutte le droghe, illegali o meno, cercano di fare».
Francesca Ronchin