Federico Fubini, Corriere della Sera 28/10/2012, 28 ottobre 2012
LA CINA PERDE - E’
la seconda superpotenza della Terra, in trent’anni il suo reddito nazionale è cresciuto come non si era mai visto nella storia dell’umanità, l’afflusso di popolazione dalle campagne alle fabbriche ha sprigionato una potenza industriale che impressiona. È un regime dominato da un solo partito, ma i grandi economisti di lingua inglese fanno a gara a prevedere quando esattamente supererà gli Stati Uniti in base al prodotto interno lordo. Sul suo celebre manuale di macroeconomia, Paul Samuelson scrive nel 1961 che sarebbe successo fra il 1984 e il 1997; nell’edizione dell’80 corregge e rinvia la data a quest’anno.
Ci siamo ma nel frattempo l’Urss, di cui parlava Samuelson, è scomparsa. Fra il ’28 e il ’60 le politiche di urbanizzazione forzata di Stalin fecero crescere l’economia del 6% l’anno, grande depressione e Seconda guerra mondiale incluse. Il 10,1% medio della Cina negli ultimi trent’anni non vale molto di più, eppure oggi è su questa base che raffinati esperti occidentali tornano a esercitarsi nel datare un altro sorpasso prossimo venturo di un Paese «comunista» sull’America. Secondo l’«Economist» sarà fra il 2018 e il 2021, almeno in materia di Pil. Per cellulari venduti è già successo nel 2001, per litri di birra bevuti nel 2002, in consumo di acciaio addirittura nel 1999 per poi sestuplicare le distanze da allora, benché il debito di questo settore industriale in Cina oggi sia uguale al Pil del Sudafrica (400 miliardi di dollari).
Come l’urbanizzazione compulsiva di Stalin, anche gli anni di prestiti forzati dal partito cinese attraverso le banche pubbliche nelle acciaierie presentano un conto, prima o poi: alimentano numeri funambolici di crescita mentre tutto quell’acciaio viene fuso e poi le sbarre vengono montate dentro i ponti e nei grattacieli; ma molto meno in seguito, quando i grattacieli restano vuoti e si scopre che a nessuno interessa attraversare quei ponti.
La Cina oggi è a questo punto, il giorno dopo la fine della costruzione. Non è chiaro dove andrà, né se una nuova classe media entrerà mai con le sue aspirazioni in quegli appartamenti vuoti. Malgrado le promesse dei gerarchi comunisti — degne dei politici italiani — dal 2005 la quota di consumi sul fatturato della nazione è persino scesa ulteriormente dal 40% al 35%, livelli da economia di guerra. Tutto in Cina è export (anzi lo era, quando tirava), o investimento dettato dal partito tramite le banche pubbliche che poi seppelliscono nella propria pancia il debito inesigibile: un ingranaggio più raffinato che da noi, dove il debito è bene in vista e soprattutto subito catalogato come pubblico.
Nel frattempo molti di quei magnati cinesi dell’edilizia, o dell’acciaio, o del vetro, siedono fra i membri del Congresso nazionale del popolo che a marzo timbrerà il passaggio dal vecchio presidente Hu Jintao a quello nuovo Xi Jinping. Anche qui c’è un sorpasso, netto: l’agenzia Bloomberg calcola che, solo l’anno scorso, i 70 membri più ricchi di questa sorta di parlamento della Repubblica popolare hanno accresciuto i loro patrimoni di una cifra superiore a tutta la ricchezza cumulata dai 535 membri del Congresso Usa, più il presidente e il suo governo e i nove membri della Corte suprema. In 70 hanno un patrimonio di 90 miliardi dollari. C’era da aspettarselo. Mentre alimentava con diktat politici investimenti (anche) in cattedrali nel deserto e viveva di export all’Occidente quando ancora cresceva, la Cina ha vissuto una metamorfosi. È diventata un sistema altamente estrattivo. Solo gli amici del partito hanno accesso ai prestiti per sviluppare i loro progetti, solo loro possono sperare — a volte, invano — di non venire espropriati o carcerati. E solo le élite ben introdotte riescono a catturare il grosso dei benefici della celebre crescita macroscopica. Victor Shih, un economista di Hong Kong oggi alla Northwestern University, stima che l’1,5% della popolazione controlli il 67% delle attività finanziarie private.
È normale in fondo. Roma nel primo secolo, l’Inghilterra della rivoluzione industriale o l’America dei robber barons dell’800 non sono diventate le prime economie al mondo ridistribuendo prima di accumulare. Il punto è dove andrà la Cina da qui in poi, di cosa crescerà ora che la grande urbanizzazione rallenta e l’Occidente perde il suo appetito per un eccesso di prodotti asiatici comprati sempre più a debito. È finito il modello di un Paese tutto volto a fare strade e fabbriche a basso costo per poi vendere altrove i suoi prodotti. I cortili delle fabbriche, i magazzini, le rimesse dei porti sono sempre più ingombri di rubinetti, lavandini, biciclette, motorini, vetro o giocattoli per i quali non si trova domanda in nessun angolo del mondo. Il governo sta varando un piano da quasi dieci miliardi di dollari per salvare l’intero settore dei pannelli solari, ormai in grottesca sovraccapacità produttiva. Gli impianti della Repubblica popolare possono sfornare 42 milioni di auto l’anno quando se ne vendono non più di 18, i concessionari non sanno più dove parcheggiarle e litigano con i produttori che vogliono continuare a rifornirli. Persino le perdite del ministero delle Ferrovie fanno apparire virtuose, al confronto, quelle dei tempi bui delle Fs. L’economia rallenta, eppure il governo questa volta esita a spingere le banche a prestare altre centinaia di miliardi per sempre nuovi investimenti a vuoto.
Qualcosa, da qualche parte, deve cambiare. Scrivono Daron Acemoglu del Mit e James Robinson di Harvard nel loro Why Nations Fail che le istituzioni devono diventare meno «estrattive», cioè meno distorte a favore delle élite del partito, del credito e dell’industria legata ai politici, e più «inclusive» verso gli umili e gli esterni al sistema. In caso contrario la Cina perderà la strada della crescita, come mezzo secolo fa successe all’Urss. Nota Alberto Forchielli, partner fondatore del fondo Mandarin Capital, che non si tratta più di misure per l’economia ma di scelte politiche: «Bisognerebbe limitare l’arbitrio delle lobby ai vertici delle migliaia di imprese e banche di Stato e dare più denaro, e di conseguenza più potere, in mano alle maggioranze». Solo così possono crescere i consumi, riequilibrando l’economia. Ma aumentare i consumi interni significa far crescere il settore dei servizi, aggiunge Forchielli, e non è facile riuscirci mantenendo il controllo della politica sulla finanza e della censura sui media.
La Cina si sta avvicinando così a una fase critica. Un segnale è nella fuga silenziosa dei ricchi, ma perdenti, e dei cervelli che hanno qualche ragione di temere il potere o il futuro. La fuoriuscita loro — e dei loro soldi — è in aumento. L’anno scorso il 75% delle richieste di visto di migranti-investitori negli Usa (devono spendere almeno un milione e creare 10 posti) è venuta dalla Repubblica popolare, un record; e quando quest’anno il Canada ha aperto una quota annuale simile per 700 persone, è stata riempita in una settimana e 697 erano cinesi. Prime crepe in un muro o spie di una «primavera» in arrivo come nel mondo arabo? Più probabile che un Paese così stia semplicemente perdendo il suo dinamismo, o l’ottimismo. Il che, per certi aspetti, è anche peggio.
Federico Fubini