Luca Ricolfi, La Stampa 29/10/2012, 29 ottobre 2012
IL SISTEMA-ITALIA COSTA ALLE IMPRESE DUE TERZI DEGLI UTILI
[Confronto con la redditività che avrebbero all’estero L’handicap si deve a tasse, salari e valore dei servizi] –
Così la nostra inchiesta su «Che cosa soffoca l’Italia» è terminata. Negli ultimi due mesi abbiamo pubblicato otto piccoli dossier sugli ostacoli che rendono difficile produrre in Italia (un quadro riassuntivo è pubblicato oggi alle pagine 4 e 5),ma ora è venuto il momento di tirare le somme. E, come promesso, noi lo facciamo con un superindice – l’indice H – che sintetizza in un singolo numero quanto è difficile fare impresa nel nostro paese. H come handicap, perché quelche il superindice misura è precisamente l’entità dello svantaggio o handicap che una nostra impresa sopporta per il fatto di operare in Italia anziché in un altro paese europeo (e H, per accidente, sta anche per Fondazione Hume, che ha costruito l’indice appositamente per questa inchiesta, condotta insieme ai giornalisti della Stampa).
Ma veniamo subito al dunque: H vale 312. Ma come si deve leggere questo numero?
Per capirlo, immaginiamo un’impresa che opera in Italia e che, dopo aver pagato tutte le tasse, realizza un utile netto pari a 100. Per ottenere questo risultato l’impresa ha pagato un certo prezzo per gli input, ossia i beni e servizi che entrano nel processo produttivo: energia, semilavorati, affitti, servizi finanziari contratti assicurativi, etc. Ha pagato ai lavoratori un certo salario direttamente in busta paga. Ha trattenuto parte della retribuzione, consegnandola al fisco o agli enti previdenziali. Ha pagato i contributi sociali a carico del datore di lavoro. Ha pagato varie imposte e tasse direttamente gravanti sull’impresa. Alla fine di questo processo le resta, appunto, un ammontare pari a 100. Ora ci chiediamo: se l’impresa, con la medesima tecnologia e organizzazione, avesse operato in Finlandia, in Spagna, nel Regno Unito, o in un qualsiasi altro paese europeo avanzato (appartenente all’Ocse, l’organizzazione delle economie sviluppate) quel suo utile di 100 quanto sarebbe diventato? Ebbene la risposta è 312.
Facendo variare le cose che contano – prezzo degli input, costo del lavoro, sistema di tassazione – è questa la terribile conclusione cui si arriva: le imprese italiane, se operassero all’estero, triplicherebbero la loro redditività, con tutto quel che ne segue in termini di occupazione e di stipendi dei dipendenti. E viceversa: per il mero fatto di operare in Italia, ottengono meno di un terzo di quel che otterrebbero altrove.
Naturalmente questo numero sintetico, 312, è una media, calcolata sui 18 paesi europei per cui vi erano dati sufficienti (vedi grafico 1 a fianco). Ci sono paesi in cui i nostri 100 euro di utile diventerebbero di meno: in Germania, ad esempio, diventerebbero 89, in Belgio 51, in Svezia 39 (se questi paesi se la cavano meglio di noi, quindi, non è perché hanno costi più bassi, ma perché le loro imprese sono più efficienti o specializzate in produzioni più redditizie). E c’è persino un paese, la Danimarca, in cui i nostri 100 euro di utile si tramuterebbero in una perdita. Rispetto a questi paesi operare in Italia è un vantaggio, e infatti il valore di H è inferiore a 100.
Ma in tutti gli altri paesi considerati, e sono ben 14, l’utile potenziale di un’impresa italiana è maggiore di 100. In Finlandia, ad esempio, l’utile salirebbe a 164. Nel Regno Unito a 214. In Spagna a 295. In Portogallo a 472. Per non parlare delle economie dell’Est entrate di recente nel club delle società avanzate: in Polonia i 100 euro dell’impresa italiana diventerebbero 595, in Estonia addirittura 703.
Si può ovviamente immaginare che questo numero sintetico, 312, possa in futuro essere calcolato con più accuratezza, con dati più ricchi e di migliore qualità, o su un insieme di paesi ancora più ampio (la Fondazione David Hume sta già lavorando a una versione con i 34 paesi Ocse, compresi quelli extra-europei). Però è difficile che il risultato cambi in modo sostanziale. L’ordine di grandezza dell’handicap-Italia è quello lì: da 1 a 3.
Ma da che cosa dipende il nostro svantaggio?
Certamente non dalle buste paga dei nostri lavoratori, che sono perfettamente mediane: 9 paesi (fra cui Spagna, Grecia, Portogallo e tutti paesi dell’Est) hanno salari ancora più bassi dei nostri, altri 9 paesi (fra cui Germania e Regno Unito) hanno salari decisamente più alti (vedi grafico 2).
Quello che determina il nostro svantaggio sono invece due altri fattori. Il costo dei beni e servizi diversi dal lavoro, innanzitutto. Per rendersi conto dell’importanza di questo fattore bisogna considerare che fra i costi di un’impresa quello degli input (i cosiddetti consumi intermedi) è molto più importante di quello del lavoro. Anche considerando tutto il costo del lavoro, comprese trattenute e contributi sociali, il peso degli input (consumi intermedi), resta decisamente dominante. Il costo dei consumi intermedi è quasi il quadruplo di quello del lavoro: in pratica, vuol dire che un aumento del prezzo degli input anche solo del 2% ha un impatto sui costi complessivi enorme, equivalente ad un aumento delle retribuzioni del 7-8%. Di qui l’importanza di liberalizzazioni incisive e ben fatte, ossia capaci di ridurre i prezzi ai quali le imprese si riforniscono di energia, materiali, semilavorati, servizi. Prezzi che in Italia sono altissimi, superati solo da quelli della Danimarca (vedi grafico 3).
Ma il fattore fondamentale che soffoca la crescita, e abbassa in modo drammatico la convenienza ad operare in Italia, è il sistema di tassazione sul lavoro e sull’impresa. Solo in due paesi, Francia e Belgio, il cuneo sul lavoro dipendente supera il nostro. E in nessun paese Ocse le tasse sull’impresa sono alte come in Italia (vedi grafico 4).
Di fronte a questi dati la domanda non è perché l’Italia non cresce più, ma perché tante imprese nonostante tutto combattono e resistono. Ad esse i nostri governanti di ieri e di oggi offrono purtroppo quasi solo parole. Parole di annuncio, il più delle volte: faremo questo, faremo quello. Parole di esortazione, in più rare occasioni: per «tornare a crescere» dobbiamo lottare contro la mafia, la corruzione, l’evasione fiscale, la mancanza di spirito civico. E persino – qualche volta – parole di biasimo, quando si rimpoverano gli imprenditori di non investire abbastanza. Una sottile vena di idealismo pervade il nostro dibattito pubblico, come se dal ristagno di questi anni si potesse uscire senza aggredire il nodo fondamentale: che non è, come piace pensare ai politici, la mancanza di senso civico degli italiani ma è lo spaventoso sovracosto (per non chiamarlo pizzo) che la onnipresenza e la voracità dello Stato impongono a chiunque provi a fare impresa rispettando le regole. Perché entrambi i nodi che la nostra inchiesta ha messo a fuoco, prezzo degli input e tassazione, hanno la medesima origine: una Pubblica amministrazione ipertrofica, inefficiente, ostaggio di clan, burocrazie e lobby. L’incapacità di fare le riforme liberali tiene alti i prezzi degli input, la volontà di controllare denaro pubblico induce a risolvere qualsiasi problema aumentando le tasse.
E’ questo il male che soffoca l’Italia. E’ questo che ha portato H, l’indice che misura il nostro svantaggio, all’iperbolico livello 312. Perciò, se ne avessi l’opportunità, ai politici che si apprestano a chiederci il voto rivolgerei una sola domanda: avete portato H a 312, di quanti punti vi impegnate a farlo scendere nei prossimi 5 anni?