Vittorio Sabadin, La Stampa 28/10/2012, 28 ottobre 2012
IL TEMPO RITROVATO
[Durante il trasloco nella nuova sede sono riemersi migliaia di biglietti, lettere, telegrammi. Saranno esposti nel Museo del giornale] –
Quando si fanno i traslochi, capita sempre di trovare al fondo di un cassetto qualcosa che si ignorava di possedere, o di cui si erano perse le tracce. Anche durante il trasloco della Stampa da via Marenco a via Lugaro è capitato qualcosa del genere. Conservati in cartelle di cartone ricoperte di polvere, c’erano i biglietti, le lettere, i telegrammi che i vari direttori si sono scambiati con giornalisti e collaboratori dagli anni 50 ai 70. Migliaia di fogli e di veline scritte a macchina o a mano, pinzati e catalogati da un esercito di segretarie perché nessuna memoria di quanto avveniva ogni giorno andasse persa.
La lettura di questi documenti, parte dei quali saranno esposti da domani nel nuovo Museo de La Stampa, è un fantastico viaggio nel passato del giornale e in un modo di fare il giornalista che telefonini e computer hanno spazzato via.
I dossier partono dai tempi di Giulio De Benedetti, che dal 1948 guidò La Stampa per 20 anni. La sua riconosciuta grandezza come direttore era pari solo alla perfidia, e nessuno poteva sedersi al mattino alla scrivania sicuro che avrebbe conservato il posto fino a sera. Si racconta che uscisse dall’ascensore della sede di via Roma lasciando cadere il cappotto che indossava appoggiato sulle spalle, e che un usciere dovesse sempre essere pronto a prendere l’indumento al volo. All’epoca, telefonare da una città all’altra era molto complicato e richiedeva ore di attesa per avere la linea. Era dunque più comodo inviare telegrammi e i telegrammi di De Benedetti, sempre così avari di complimenti, rivelano un’attenzione maniacale ai dettagli, cosa che spiega l’elevata qualità del giornale che diresse. Uno dei telegrammi del 1955, indirizzato al capo della redazione romana Vittorio Gorresio, dice e minaccia: «Gazzetta [del Popolo] ricevuto foto Adenauer a Mosca prima di noi malgrado nostre continue sollecitazioni. Prego segnalare nome responsabile. Cordialità». Un altro telegramma, sempre a Gorresio: «Servizio di […] insensato stop. Invece della cronaca ci ha inviato un inutile articolo. Abbiamo dovuto ricorrere all’Ansa stop. Provvedere per i prossimi giorni».
Tra le lettere inviate a De Benedetti ce n’è una, commovente, di Massimo Mila, l’ex partigiano che aveva studiato al D’Azeglio con Cesare Pavese, Leone Ginzburg e Norberto Bobbio e che sarebbe diventato il più grande musicologo italiano. Su un foglietto grigio che reca come intestazione una frase di Voltaire («Ho il cuore profano e so conoscermi, non mi vanto di non vedermi mai prete»), Mila scrive nel 1967 con una penna stilografica la lettera con la quale accetta il ruolo di critico musicale del giornale: «Spero di poter coprire degnamente il posto al quale ha dato tanto prestigio l’opera di Della Corte, e che lei sarà contento di me. […] Per parte mia non chiedo che una cosa, una bagatella da niente: la completa libertà delle mie opinioni». E anche il totale rispetto del modo di esprimerle, visto che quando nel 1976 un redattore si permette di ritoccare un suo pezzo, Mila scrive indignato al direttore Arrigo Levi: aveva iniziato il testo con uno scherzoso «l’è dura» che «è stato sostituito con un osceno e impettito “è duro”». E poi aggiunge: «Alla frase “la piazzetta che a Giuseppe Verdi s’intitola” qualcuno si impanca e corregge, con prosa da rogito catastale, “la piazzetta che s’intitola a Giuseppe Verdi”». La stessa allergia agli interventi redazionali era tipica di Igor Man, il grande inviato che era capace di inondare di pagine e pagine di proteste quelli che definiva i «cruscaioli» della redazione Esteri, che avevano osato correggere un «per dirla spiccia» con «in parole povere», oppure «codesta concezione» con «questa concezione».
Tra i documenti, c’è il carteggio tra Leonardo Sciascia, Levi e il vicedirettore Carlo Casalegno, nel quale lo scrittore siciliano propone di pubblicare a puntate sulla Stampa la storia di Ettore Majorana, lo scienziato misteriosamente scomparso nel 1938. Sciascia scrive da Racalmuto: «Questo lavoro su Majorana credo che sarà pronto alla fine di agosto. È una cosa a cui penso da più di due anni, cercando documenti e testimonianze. E forse avrei lasciato tutto nel limbo delle tante mie idee non realizzate, se tutto quello che si scrive per il trentennale dell’atomica non avesse riattizzato il mio odio alla scienza». Qualche mese dopo propone un altro lavoro basato su documenti e manoscritti che riguardano la vita di monsignor Angelo Ficarra, vescovo di Patti. «Alcuni di questi documenti - scrive Sciascia - recano la dicitura “sub secreto S. Officii” con l’esplicitazione che chiunque ne divulghi il contenuto cade nella scomunica maggiore da cui soltanto il Papa può assolvere. Oltre che disposto a pubblicare il mio scritto, lei dovrebbe quindi essere disposto a prendersi la scomunica». Gli risponde Carlo Casalegno: «Levi accetta con gioia il suo racconto. Né lui né i suoi colleghi, sottoscritto incluso, temono la scomunica».
Decine le lettere di Mario Soldati, scritte con una calligrafia illeggibile, che si incurvava verso destra sul finire della pagina. Venivano ribattute a macchina dalle segretarie prima di consegnarle al direttore. Ci sono le corrispondenze di Giovanni Arpino, compresa la lettera a Alberto Ronchey con cui si proponeva alla Stampa come collaboratore: «Forse ha sentito parlare di me, ho scritto alcuni libri…».
E c’è il terribile, tranciante telegramma che Enzo Biagi scrisse a Giulio De Benedetti, il giorno dopo l’uccisione del presidente americano John Kennedy a Dallas, nel novembre del 1963. Biagi si trovava in America e scrisse un articolo su come la televisione americana aveva dato l’annuncio e sulle reazioni dei telespettatori che si trovavano nella sala. De Benedetti sentenziò che il servizio era mediocre e lo fece pubblicare in una posizione umiliante, sotto quello del corrispondente. Quando lo venne a sapere, Biagi mandòquesto telegramma: «Pregoti considerarmi dimissionario data odierna saluti Biagi».
Impressionante la documentazione sui viaggi di Igor Man in Vietnam, in Sud America, in Medio Oriente, nelle zone calde dell’impero sovietico. In un’epoca priva di e-mail e di telefoni satellitari, traspare l’angoscia della lontananza e dell’impossibilità di comunicare con la redazione. Durante la Guerra dei Sei Giorni, nel giugno del 1967, trasmette disperato nella notte da un hotel del Cairo: «Telegrafato ieri servizio nove cartelline ignoro se ricevuto stop. Atteso invano telefonata stop…».