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 2012  ottobre 28 Domenica calendario

LA CINA AL BIVIO DEL FUTURO

Fra poco più di una settimana si vota in America, dove verrà democraticamente eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti che resterà in carica per quattro anni. Due giorni dopo, 8 novembre, si aprirà a Pechino il diciottesimo Congresso del partito comunista che imporrà e legittimerà dall’alto il nuovo presidente Xi Jinping - successore e vice dell’attuale Hu Jintao - prescelto fin dal 2002 a governare la seconda potenza del pianeta per i prossimi dieci anni. Due eventi destinati a incidere in profondità sulle relazioni fra Stati Uniti e Cina, e quindi sugli assetti mondiali, che nel decennio che verrà vedranno le spinte della globalizzazione spostarsi sempre più dall’Atlantico al Pacifico.
L’Europa da un pezzo non è più una priorità per Washington. Non è stata quasi nominata nel dibattito elettorale, che sta per chiudersi, tra il Presidente democratico e lo sfidante repubblicano: sia l’uno che l’altro hanno lasciato intendere, con il loro silenzio sprezzante, di considerare quantité négligeable l’Unione Europea, inaffidabile alleata in declino, irrilevante per gli interessi strategici di una superpotenza globale.
Se il presidente Obama verrà rieletto, l’Asia in generale e la Cina in particolare, che ne ha criticato con asprezza l’incontro col Dalai Lama e la fornitura di missili a Taiwan, resteranno più di prima il suo principale quanto irto punto di riferimento diplomatico. Se invece vincerà Romney, il dialogo con i nuovi interlocutori cinesi, che in queste ore delicatissime tifano per lui, si svolgerà ancora più diretto e più scorrevole. Non a caso un noto americanista di Shanghai, l’accademico Dingli Shen, ha osservato recentemente: «Purtroppo il democratico Obama non ha capito che Pechino per Washington può essere un’opportunità più che un ostacolo o un concorrente. Del resto, dall’epoca di Nixon e Kissinger, la Cina si è trovata sempre meglio con i repubblicani alla Casa Bianca. Anch’essi, come noi oggi, sono da sempre a favore del libero commercio, di poche regolamentazioni negli scambi e della libertà d’impresa». Tutti princìpi che si ritrovano nella «filosofia dello sviluppo», filosofia che la Cina comunista ha attuato con strepitosi successi pratici e paradossi ideologici, sospesi da almeno un ventennio tra la libertà economica e la non libertà politica.
L’Economist ha voluto ricordare in proposito certi saggi spregiudicati e capricciosi di Milton Friedman. Il patrono della scuola dei Nobel liberisti di Chicago, compiuto un primo viaggio in Cina nel 1980, al ritorno scrisse un articolo in cui osservava che la cosa che più l’aveva colpito era l’assenza o ignoranza del «diritto alla mancia» negli alberghi e nei ristoranti. Per lui il «tip», il «diritto di mancia», era la percentuale politica che per esempio in America, patria del liberismo anche spicciolo, s’aggiungeva agli scambi e ai prezzi correnti dell’economia quotidiana. Dal che dedusse una legge generale, che sembrava attagliarsi benissimo già ai prodromi del socialcapitalismo alla cinese: sentenziò che non sempre e non dovunque la libertà economica debba forzatamente apparentarsi al tip della sua «cugina politica».
La sentenza doveva restare valida non solo per la Cina, ma per tutte le consimili economie di mercato «confuciane», da Singapore alla Taiwan del Kuomintang, dove capitalismo e autoritarismo seguitano a convivere da più di mezzo secolo in relativa e talora spinosa «armonia». Per accorgersi delle «disarmonie» non era necessario aspettare l’entrata in scena nel 2002 e l’uscita nel 2012 degli epigoni inguaiati del liberismo denghista. Ci basta spulciare la lista ogni giorno più lunga e più drammatica di coloro che, saliti ai vertici del partito e dello Stato, hanno o avrebbero profittato del prolungato miracolo economico per lucro personale e di clan. L’uscente capo di Stato Hu Jintao appare come congelato al centro di uno scenario da crepuscolo degli dèi, mentre il suo popolare primo ministro Wen Jiabao viene schiacciato dalla denuncia internazionale di uno scandalo di smisurata corruzione familistica, nello stesso momento in cui il leader della sinistra neomaoista Bo Xilai, defenestrato dal politburo, perduta l’immunità parlamentare, la moglie condannata all’ergastolo per assassinio dell’amante, rischia addirittura una condanna alla pena capitale.
La storia millenaria delle transizioni cinesi da una dinastia all’altra è stata quasi sempre costellata di crolli apocalittici, corruzioni capillari, omicidi enigmatici; i mutamenti epocali sono stati spesso accompagnati o assimilati, nelle narrazioni dei cronisti, a immani catastrofi naturali. Anche le vicende dell’impero comunista, da Mao fino a Deng e dopo Deng, si sono sviluppate a balzi e severi strappi dinastici. Ricordo il XXIV congresso comunista di vent’anni fa, il congresso dell’ottobre 1992, dedicato alla transizione e alla celebrazione del primo artefice del miracolo economico, dell’apertura della Cina al mondo, il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping ormai quasi nonagenario. Anche allora, come in altra forma oggi, si chiudeva solennemente e duramente un’epoca e se ne spalancava una nuova: si chiudeva biologicamente la carriera degli ultimi veterani della Lunga Marcia che, dopo il massacro di Tienanmen, avevano invano sperato di bloccare la riforma economica da essi ritenuta in gran parte responsabile dei moti e tumulti studenteschi del 1989. Una «commissione dei consiglieri», nido dell’ostruzionismo gerontocratico, era stata disciolta. Fra i grandi vecchi costretti alle dimissioni v’era il capo dello Stato, Yang Shangun, 84 anni, il più insidioso degli antagonisti conservatori ostili al vecchissimo Deng.
Spesso si dimentica che il «miracolo» aveva messo radici già profonde nella Cina del tempo, dove diversi dirigenti odierni, che si accingono a darsi il cambio, erano giovani e ambiziosi e forse smarriti funzionari di seconda fila. Quel congresso sanciva e legittimava una situazione di svolta storica. La vittoria di Deng s’incarnava già, al di là del comunismo, nelle cose reali: nel benessere diffuso, nei consumi crescenti, negli investimenti che affluivano in massa a Canton, a Shanghai, nella zona di sperimentazione capitalista di Shenzhen. Oggi si tende a dimenticare che l’economia era più che raddoppiata rispetto a quella del 1978, anno di rottura con la povertà e le carestie maoiste e d’avvio della rivoluzione liberista. Si dimentica che l’aumento del prodotto lordo aveva già raggiunto il tasso del 14 per cento, che Pechino aveva già un suo posto d’onore fra le maggiori entità commerciali del mondo, che la Cina in metamorfosi già si presentava sui mercati internazionali come un continente immenso finanziariamente sano e solvibile.
Ora assistiamo alla fine di questa prima e lunga fase del miracolo. Mentre dilaga la corruzione da ricchezza dei capi comunisti, divenuti manager miliardari, dilagano anche sulle reti iperinformate del web lo scontento popolare, lo smascheramento degli abusi di potere, la denuncia dei clan di partito e di parentela che hanno mandato in malora gli ultimi e falsi miti dell’ideologia comunista. Non si tributa più nei comunicati ufficiali la citazione d’obbligo al pensiero di Mao. Al tempo stesso l’autoritarismo comunista, sposato alla libertà spesso selvaggia della sola economia, non regge più; il cosiddetto «capitalismo confuciano», unito al burocratismo di regime, rischia di perdere i pezzi per strada. Verso quali riforme o controriforme ignote andrà la Cina, quasi destabilizzata da una ricchezza abnorme ma politicamente squilibrata, che si prepara ad essere governata per dieci anni da un alto quanto grigio funzionario del partito? Cosa farà, cosa dirà, quali vie di risanamento o di ritirata sceglierà il paffuto Xi Jinping, così somigliante a Mao, di cui sappiamo solo di non sapere nulla?
Una certa maggioranza avida, ruvida, formata da fasce di una nuova e cinica classe media, dice di preferire l’odore del danaro alla libertà d’opinione. Insomma meglio ricchi che liberi. Intanto i conservatori arricchiti del partito sostengono di voler privilegiare la stabilità del regime, rispondendo con parole vaghe e sfuggenti alla domanda di riforme che giungono sempre più urgenti e insistenti, via internet, alle stanze di un potere in parte ancora forte e in parte già traballante.
L’unica cosa per ora certa è che una Cina forte, risanata, politicamente aperta agli innesti democratici, costituirà una garanzia per il mondo. Sarebbe invece assai più pericolosa per tutti una Cina debole, priva di contrappesi politici, dilaniata dalle lotte intestine per il potere e il possesso tribale delle abnormi piramidi economiche ereditate dal grande miracolo denghista.