Mario Baudino Grugliasco, La Stampa 27/10/2012, 27 ottobre 2012
VESTIVAMO ALLA POVERACCIA
[L’ex maestra Tarditi da best seller locale alla grande editoria “Racconto la mia gente di Langa, ha diritto ad avere voce”] –
L’ ultimo romanzo l’ha scritto due anni fa, ed è la storia di una testa un po’ pazzerella, una «Testa viroira». È il tredicesimo, ma non verranno altri perché Maria Tarditi adesso deve usare «tutta la buona volontà per continuare a vivere». È nata nel 1928, scrivere è stata la grande avventura della vecchiaia, un po’ per nostalgia e un po’ perché non ne poteva fare a meno. Ha incominciato a settant’anni, dopo una lunga vita come maestra elementare in scuole di montagna, un libro in sette settimane «per riempire le giornate», tutto a mano su taccuini e quadernetti. È un best seller dell’editoria locale. Ora è stata scoperta da quella nazionale, ma non sembra importargliene molto.
È uscito in questi giorni per Dalai La venturina , una storia di Langhe con al centro una trovatella, romanzo di formazione duro perché parla di una vita durissima, e allegro perché la scrittura di Maria Tarditi è intimamente allegra. Non è la sua storia, ma un poco le somiglia. La «Venturina» diventa con testardaggine una maestra elementare, proprio come è stato per lei, nata a Monesiglio, in val Bormida, in una vasta famiglia contadina con tanto di nonno educato in seminario, che «faceva le prediche» in latino: non la predica della messa, ma la sgridata ai ragazzi, insomma, quella predica lì. «Stultus est dicere putabam», tuonava quando Maria e la sorella protestavano una insincera buona fede dopo qualche marachella. «Si isti et ille cur non ego?» sbeffeggiava quando frignavano perché gli altri ragazzi facevano certe cose e loro no. Risultato, «merda, dicevamo noi due. Ma non lo dicevamo veramente, lo pensavamo soltanto, altrimenti non sarei qui a raccontarglielo. In ogni caso alle magistrali non ho mai avuto difficoltà col latino».
Ha occhi chiari e penetranti, un’espressione un po’ seria e un po’ buffa. «La famiglia era il bello di una volta», conclude guardandoti in faccia con aria interrogativa. E intanto, senza parere, già l’interlocutore sta cascando in un pezzo dei suoi libri. Che non sono certo rimasti nel cassetto: attraverso un primo passaggio da un’associazione culturale cuneese, Primalpe, sono infatti confluiti molto presto nella programmazione di un combattivo editore come l’Araba Fenice, sempre di Cuneo. Risultato: Maria Tarditi è diventa popolarissima nel basso Piemonte, ma anche in Liguria e Bassa Lombardia. L’editore portava in giro i volumi alle fiere e alle sagre, i titoli accattivanti andavano via in bancarella tra prodotti locali e souvenir, proprio come il pane: a decine di migliaia nell’arco di sette anni. Il primo era stato pubblicato nel 2005, ma la macchina di scrittura si era messa in moto alla fine degli Anni Novanta.
«Ero vedova, ero sola, la famiglia sistemata, non avevo più impegni», racconta nella casa di Grugliasco dove vive con una delle figlie. Partecipò a un concorso di «Famiglia cristiana» senza neanche sapere il perché. Non successe nulla, lei «andò avanti». Cominciò un diario, ma un diario di anni lontani: la sua adolescenza, fino alla guerra e non oltre, preciso al dettaglio, senza inventare niente, anche se oggi si chiede, da scrittrice, quanto avrà deformato e inconsciamente reinventato, e sa che non ci sarà risposta. «Uno si rifugia nei ricordi, e magari li appunta», dice con sovrana sprezzatura. Ma quel diario diventa il palinsesto di un’infinità di storie, un rigeneratore di memoria da cui nascono in rapida successione i suoi tredici libri. «Ho rinunciato alla mia vecchia macchina da scrivere perché non trovavo più i pezzi di ricambio. Pensai di prendere un computer, ma insieme avrebbero dovuto vendermi anche il tecnico. Troppo complicato».
È andata avanti con carta e penna, per riempire il vuoto della scuola, dice, per inseguire qualcosa. «Sapevo di aver cominciato tardi, sentivo la vita che scappava... come una malattia». E non poteva fermarsi, perché «tutte queste cose immagazzinate erano tornate improvvisamente, come una piena».
Maria Tarditi non è una scrittrice ingenua. Si è formata sui grandi russi, ha un linguaggio impastato di umori dialettali e di terra, piacevole e arcaico. Non le spiace affatto Camilleri: «Dovrebbero dargli il Nobel, come benefattore dell’umanità. Perché quando lo leggi ti diverti». Lei ha letto voracemente per tutta la vita e non solo per divertirsi: da quando ventenne - abbandonato per motivi economici il sogno dell’Accademia di Belle Arti a Milano - si presentò alla sua prima scuola, fino al giorno in cui disse addio alla piccola classe di Pievetta, frazione di Priola in alta val Tanaro dove ha passato gran parte della vita di insegnante. Aveva trovato una scuoletta alpina con 70 allievi, l’ha lasciata che ce n’erano sette. «Ora - dice - non esiste proprio più, i pochi alunni, una quindicina, sono concentrati nel capoluogo, e meno male che ci sono i marocchini a far numero».
Tra i banchi ha visto l’Italia cambiare, guardando lontano sui libri e vicino nei vicoli del borgo. È stata testimone di una povertà inumana e dei primi segni del boom, quando i suoi ex allievi che avevano trovato lavoro alla Fiat tornavano da Torino con la «Stampa» ripiegata in tasca, segno del benessere finalmente raggiunto. Ma questo nei suoi romanzi già non c’è. Il punto estremo, cronologicamente, è il 1941, dove si racconta attraverso la voce di una cane la storia di uno zio morto quell’anno per una sifilide contratta nel 1915. «Ho voluto essere rude, forse una volta non si sarebbe potuto fare».
«Una volta» non è un mondo ideale da rimpiangere. Non è neanche un mondo migliore. Semplicemente è il suo mondo. «Non ho mai raccontato niente del dopoguerra perché non mi piaceva più, anche se era certamente più comodo».
Ha scritto per via di quella «piena», e anche per ragioni di stizza, perché nei grandi russi i servi non erano «niente» e invece lei voleva parlare proprio dei servi, dei contadini poveri. «C’entra anche Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli. Mi sono detta: noi no, non vestivamo alla marinara. E c’eravamo, e avevamo diritto a raccontare la nostra storia».
Col ritmo delle veglie sull’aia, o dei contastorie che cominciano «e non si sa mai dove vanno a finire», e parlano di amori, disgrazie, avventure, magie: per esempio delle masche, gli spiritelli contadini che mettono a soqquadro le notti ma possono essere anche di grande aiuto. «Mia mamma sì che era una masca buona, segnava i vermi ai bambini e dava le erbe curative». Segnare i vermi è un’espressione bellissima.
E Storia di masche , pubblicato per la prima volta nel 2008, continua in bancarella a non avere rivali.